Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 400 - 16 marzo 2020
Anno XLVII - [ Pdf ]
Indice dei numeri
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Aggiornato al 20 aprile 2020
organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Coronavirus: La pandemia non è al di sopra delle classi
A Lesbo fallisce nell’infamia la Europa borghese
– Fragilità dei colossi imperiali. Il ritiro USA dall’Afganistan
Alta velocità
PAGINA 2 Riunione generale del partito - La coerente battaglia del partito si staglia su un mondo borghese in decomposizione. Roma, 24‑26 gennaio [RG.136]: Lo sciopero in Francia - Origini del Partito Comunista Cinese - La rivoluzione in Germania
Per il sindacato
di classe
La vita degli uomini o quella del Capitale! - In difesa della salute della classe lavoratrice: fabbriche ferme e salario pieno!
Dagli Usa - Nel capitalismo i provvedimenti contro il Covid‑19 significano nessuna difesa per la classe operaia
Prato, 18 gennaio - Per un Fronte Unico Sindacale di Classe - Contro padroni, Stato borghese e sindacalismo di regime – For a Single Class Union Front - Against bosses, bourgeois State and regime unionism
– Genova, lunedì 17 febbraio, Per l’antimilitarismo e l’internazionalismo proletario
– Roma, 29 febbraio - Con i lavoratori della Peroni: Unire ed estendere le lotte
– Il movimento contro la riforma delle pensioni in Francia. La rapina continua - Il contesto di lotte sociali - Il "diritto di sciopero" e i servizi minimi - Ratp inizia il movimento - Sciopero ad oltranza - Alle officine del TGV - Tattica dilatoria
PAGINA 5 Trump‑Bernie i falsi rivali nelle elezioni presidenziali americane
Le Foibe: giornata “del ricordo” o dell’amnesia?
– In Medioriente dove "il nemico del mio amico può essere mio amico"
PAGINA 6 La persecuzione dei musulmani risorsa della borghesia indiania per dividere i proletari
Filippine - La triste condizione dei piccoli contadini
PAGINA 7 Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Prima di Marx (11): 11. Filippo Buonarroti (segue). La diaspora rivoluzionaria - Per una doppia rivoluzione - A Parigi - Con Giuseppe Mazzini - Influenza sugli inglesi - Fine della borghesia rivoluzionaria
PAGINA 8 8 marzo 2020 - Socialismo e femminismo - L’Avanguardia, 1912

 

 


PAGINA 1


Coronavirus
La pandemia non è al di sopra delle classi

Le diverse forme di vita costituiscono un tutto nel continuo divenire dei loro infiniti intrecci. L’animale umano convive, anche al suo interno, con molte altre forme viventi, a volte ad esso utili a volte in conflitto. Ha ben appreso a contrastare le aggressioni delle altre specie animali, ma resta vulnerabile a quelle più piccole, molti insetti, alcuni organismi monocellulari e i virus.

Sarebbe certo utile fare una storia delle grandi epidemie che nei secoli hanno avuto effetti non insignificanti nel divenire storico, da quelle che segnarono la fine del Medioevo in Europa, alla rosolia che sterminò le popolazioni dei nativi americani, alla spagnola provocata dalla prima guerra mondiale e che ne raddoppiò le vittime.

Possiamo porre la domanda: è la specie umana rispetto al passato meglio preparata a rispondere alla minaccia delle epidemie? La risposta è certamente si, nei confronti di molti flagelli che fino a pochi decenni or sono erano prodighi dispensatori di lutti e menomazioni, ad individui spesso giovani, per malattie come il tracoma, la tubercolosi, la poliomielite, i primi due provocati da un batterio, la terza da un virus. Sono epidemie la cui diffusione persiste solo ormai nelle regioni più povere del pianeta, fra le classi sociali inferiori e dove le cure sanitarie sono meno disponibili.

Anche la durata della vita aumenta, che però regredisce bruscamente nella voragine aperta dalle crisi economiche o per scompaginamenti politici, come avvenne, ad esempio, in grave misura durante il disfacimento della Unione russa dal 1989 in poi.

Perché quello che non funziona al fine di preservare la salute della specie è il capitalismo, che erge un conflitto insanabile tra le leggi della riproduzione del capitale e quelle della riproduzione e conservazione delle specie viventi, razza umana per prima.

Non è un caso che l’attuale epidemia abbia avuto origine in Cina, un paese che negli ultimi decenni ha visto una crescita straordinaria che lo ha portato ai vertici del moderno sviluppo economico capitalistico.

È evidente che oggi il dilemma che si impone è questo: dobbiamo difendere gli uomini da questa invisibile aggressione, che potrebbe provocare (ancora non lo sappiamo) uno sterminio, ovvero dobbiamo difendere la continuità nel funzionamento dei rapporti di produzione fondati sul lavoro salariato e sulla circolazione mercantile? Dobbiamo difendere la specie umana o quella sua espressione storico-produttiva capitalistica che si denomina nazione?

Il dilemma è sotto gli occhi di tutti: ovunque nella tensione, e nei conflitti di interessi borghesi, fra il “chiudere” e “non chiudere” si sacrifica il contenimento dell’infezione. In Giappone, per esempio, la gran minaccia e preoccupazione per la classe borghese è perdere il gran business delle Olimpiadi.

Di fronte ad una maturità delle conoscenze e del lavoro umano che tendono a fare di tutto il pianeta una unica macchina intelligente e collaborante, ogni borghesia, arroccata nel suo Stato e circondatasi dei suoi “scienziati”, rimanda l’allarme il più possibile, e chiude i confini a chi entra, ma non a chi esce. E contingenta le indagini con i “tamponi” per ridurre il numero degli infetti! E approfitta certo anche del morbo per gettarsi in qualsivoglia imbroglio e speculazione.

Nel ciclo attuale della crisi senile del capitale mondiale, con i meccanismi del profitto già in bilico sull’orlo del precipizio nella recessione e dell’esplodere violento della sovrapproduzione, che non ci si metta anche il virus a tenere lontani gli operai dalle fabbriche e dai cantieri, a bloccare i container impilati sui moli, pieni al 95% di merci inutili, e gli aerei sulle piste, con grave nocumento per quella alienazione di piccolo borghesi annoiati che è il “turismo”!

Chiudere scuole e cinema costa poco. Ma fermare le fabbriche fino a scampato pericolo? Impensabile! Una follia! Una bestemmia! Infatti Landini, impassibile, recita il mantra borghese per nuovi “investimenti”. Gli operai debbono andare a lavorare, nessuna norma igienica sostanziale deve penetrare all’interno delle industrie né sui mezzi di trasporto per i lavoratori. Meglio morti!

Il banale predisporre una profilassi sanitaria, con la modifica temporanea dei ritmi e dei modi del produrre, del conoscere e del consumare, attuata secondo un piano internazionale, un necessario momento e pausa nel ciclo della umana vita collettiva sul pianeta, è incompatibile con i ritmi e le crisi del capitale, per il quale produzioni e consumi non debbono, non possono fermarsi mai.

La classe operaia questo non lo deve accettare, deve imporre il salario pagato a tutti i lavoratori allontanati dal lavoro a causa del virus, compresi i precari. La pandemia non è al di sopra delle classi e il proletariato non deve affidarne la gestione alla rapace classe dei padroni e al loro Stato.

 

 

 

 

 


A Lesbo fallisce nell’infamia l’Europa borghese

Da sempre le guerre hanno determinato lo spostarsi di popoli interi. Per il modo in cui si è sviluppata l’arte moderna della guerra le masse stesse dei profughi divengono uno strumento per la sua prosecuzione ed estensione. Questo è il caso della crisi che monta lungo i confini occidentali della Turchia sui quali quel governo cerca di scaricare la tensione prodotta dai rovesci militari del suo esercito in terra siriana.

Uno degli effetti dei combattimenti nella provincia di Idlib è stato la fuga di decine di migliaia di siriani in Turchia, che si sono aggiunti agli oltre tre milioni e mezzo di profughi da anni accampati nel paese. Questi uomini, bisognosi di tutto, erano stati materia di trattativa fra il governo di Ankara e una Unione Europea pronta anche a pagare un prezzo esoso pur di tenerli alla larga.

Oggi, in tempo di guerra e di crisi economica, mantenere questo patto diventa più oneroso. Agli inizi di marzo Erdoğan  ha fatto l’atto di lasciar che i profughi siriani si avvicinassero al confine con la Grecia e la Bulgaria. Decine di migliaia di profughi hanno cercato di approfittarne per passare nell’Unione Europea.

Ma sul versante greco hanno trovato un’accoglienza di tipo militare, la polizia ha sigillato la frontiera e ha risposto con le armi ai tentativi di sfondamento. Almeno due profughi sono rimasti uccisi sul confine. Nell’Egeo, nei pressi dell’isola di Lesbo, un gommone con una cinquantina di imbarcati è stato speronato da un’unità della guardia costiera greca: alcuni sono caduti in mare, un bambino è affogato.

Non per questo il governo greco ha mostrato pietà, anzi ha premuto sulla propaganda del nazionalismo più ributtante e approfittandone per accusare la Turchia “trafficante di esseri umani”. Dietro la facciata mostrata ai rincoglioniti compatrioti della pretesa storica inimicizia fra le due nazioni, la “mercante di uomini” resta però un ottimo cliente con gli scambi che salgono al 25% delle esportazioni dalla Grecia.

Questo rigurgito sciovinista del governo greco negli ultimi mesi ha alimentato l’ondata di xenofobia, nella quale gran parte della classe dominante greca assume atteggiamenti del tutto speculari allo sciovinismo patriottico di Erdoğan.

Nel frattempo quest’ultimo non ha nascosto la pretesa di rivedere le frontiere marittime stabilite da quasi un secolo e a ridisegnare le rispettive Zone Economiche Esclusive nel Mar Egeo.

Proprio nelle isole greche di Lesbo, Samos e Chios, che si trovano a poca distanza dalla costa turca, decine di migliaia di uomini vivono attendati in condizioni disastrose, subiscono le aggressioni delle squadre naziste, che prendono di mira anche gli operatori delle ONG attive sul posto.

Nel perseguitare gli immigrati il governo greco può contare sull’appoggio della UE. Una sua delegazione si è recata a inizio marzo a Kastanies, nei pressi della frontiera con la Turchia, dove ha incontrato il premier greco. Nel manifestare la sua scelta di campo nella contesa con la Turchia, tutta ai danni dei profughi, la Von der Leyen ha ribadito: «La nostra priorità in Grecia è preservare l’ordine ai confini della UE». Poi, per solleticare i bassi sentimenti sciovinisti, ha ringraziato la Grecia per essere lo “scudo dell’Europa”. Nel farlo ha usato la parola greca “aspida” che evoca forti emozioni nella cultura ellenica.

Un motto univa i guerrieri delle polis, “con esso o su di esso”: o il greco tornava vittorioso con lo scudo al braccio, o meglio sarebbe veder riportare le sue spoglie mortali su di esso adagiate. Oggi, con ripugnante cinismo, si inneggia ad altri scudi, opposti non a nemici forti e armati, ma, in pieno inverno, a famiglie sbandate di profughi inermi, che il nauseante cadavere della Europa borghese non riesce non a proteggere, non ad accogliere, non ad acculturare, ma nemmeno, capitalisticamente, ad approfittare dell’opportunità della loro giovane e robusta forza lavoro salariata. 

 

 

 

 

 


Fragilità dei colossi imperiali
Il ritiro Usa dall’Afghanistan

Da sempre si insegna che la grande potenza che non riesce a vincere una guerra contro una piccola nazione è condannata alla propria irreversibile e storica sconfitta.

Questa evidenza fu rilevata anche dalla stampa borghese quando, a metà degli anni ’70 del secolo scorso, si tirò il bilancio della ingloriosa avventura militare statunitense in Indocina. Le forze nazionalistiche di quelle estreme contrade, ammantate abusivamente della bandiera rossa, impartirono una sonora batosta alla più poderosa macchina bellica della storia.

Similmente oggi il mostruoso planetario tentacolare modernissimo e costosissimo apparecchio militare degli Stati Uniti è di nuovo capace di regalare a sé stesso una disfatta che fa impallidire in disonore tutte quelle del passato.

Come definire altrimenti venire a patti col diavolo, cioè con l’aborrito nemico del “fondamentalismo islamico” estremo, dopo ben 19 anni di sforzi bellici infruttuosi nelle steppe afghane? Questo è quanto accaduto a Doha, la capitale del Qatar, dove, sotto la supervisione del Segretario di Stato americano Mike Pompeo, il capo negoziatore Usa Zalmay Khalilazad e il vice capo dei talebani afghani Mullah Abdul Ghani Baradar hanno firmato un accordo “di pace”.

Non è facile rappresentare la dimensione della sconfitta americana.

Specie considerando che la forza di quello che veniva descritto come il nemico pubblico Numero Uno non poteva lontanamente paragonarsi a quella della nazione vietnamita, in tumulto di crescita e lanciata ad emanciparsi dalla tutela dell’imperialismo statunitense così come già aveva coperto di infamia e viltà militare il passato dominio coloniale francese.

I talebani afghani, a differenza dei vietcong, come forza politica e militare ammantata di fondamentalismo religioso, furono prodotti in provetta negli ambienti del rigorismo pakistano e saudita, e dunque lontano anche dall’Islam tradizionale afghano, e non sono altro che il portato della mancata formazione di una vitale nazione afghana e di questo fallimento sono il prodotto più vistoso.

Vediamo i termini dell’accordo di Doha.

Già nei prossimi quattro mesi il contingente statunitense presente in Afghanistan sarà ridotto da 13.000 a 8.600, mentre entro il maggio del 2021 gli Stati Uniti e la coalizione internazionale ritireranno tutte le loro truppe. In cambio i talebani si sono impegnati a “partecipare allo sviluppo di un sistema islamico”, cioè esattamente l’equivalente del loro antico sogno.

Certo ciò avviene dietro la promessa di deporre le armi, ma la sua esecuzione viene affidata all’avvio di negoziati con l’attuale governo afghano, il quale arriverà al tavolo della trattativa in condizioni di estrema debolezza politica e militare. Infatti gli osservatori più informati sostengono che il principale ostacolo all’attuazione dell’accordo sarà costituito dalla dirigenza politica di Kabul, la quale, avendo tutto da perdere nella prospettiva del disimpegno militare statunitense, farà di tutto per sabotarlo.

Fra gli aspetti più paradossali dell’accordo ci sono quelli in cui i talebani si impegnano a collaborare nella lotta contro l’Isis, presente in Afghanistan con alcune migliaia di miliziani, a non allearsi più con al‑Qa’ida, l’organizzazione terroristica fondamentalista islamica che rivendicò gli attentati dell’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti. Va ricordato infatti che il reciproco sostegno fra al‑Qa’ida, la quale forniva soldi e sostegno militare, e i talebani, i quali a loro volta offrivano a quella una base territoriale, fu la motivazione propagandistica che spinse 19 anni fa il presidente statunitense George W. Bush a intraprendere l’aggressione militare all’Afghanistan.

Ma evidentemente la fretta spinge l’amministrazione americana al disimpegno.

E nonostante gli immensi costi sostenuti in un conflitto per il quale sono stati spesi oltre 2.000 miliardi di dollari e nel quale sono stati uccisi 3.550 militari della coalizione, di cui 2.420 americani, cui si aggiungono circa 4.000 contractor, eufemismo che designa i mercenari al servizio dell’imperialismo a stelle e strisce.

Va ricordato che il conflitto è costato la vita anche a 54 militari italiani e che l’Italia è presente con 800 uomini nella missione Nato Resolute Support.

Inutile dire che i costi umani per gli afghani, e soprattutto fra i non belligeranti, sono stati assai maggiori. Secondo alcune stime le milizie talebane avrebbero avuto circa 70.000 morti, mentre è impossibile stabilire l’ammontare delle vittime civili che partono da un minimo di 38.500 morti fino a oltre i 300mila.

Ad aggiungersi a questi elementi di fatto, che definiscono i contorni di un fallimento che non è facile minimizzare, c’è l’inanità degli sforzi bellici profusi dagli Stati Uniti nell’ultimo trimestre del 2019, in cui i talebani hanno condotto oltre 8.000 attacchi, cui gli americani hanno reagito sganciando più di 7.400 fra bombe e missili. Evidentemente in una strategia che si è rivelata efficace per raggiungere un maggiore peso contrattuale nella trattativa con la superpotenza Usa, i fondamentalisti musulmani hanno ritenuto di dispiegare tutta la loro potenza di fuoco.

Il risultato è stato proprio quello di indurre l’amministrazione di Washington a fare di tutto pur di svincolarsi dalla trappola afghana, spinti anche dalla necessità di concentrare i propri sforzi nel contenimento della potenza cinese.

Il disimpegno statunitense lascia la patata bollente al gigante asiatico. La Cina che divide un tratto di confine in comune lungo 76 chilometri con l’Afghanistan, negli ultimi anni ha rafforzato la sua presenza nel paese vicino, tanto da diventare il principale partner commerciale di Kabul, apprestandosi a dominare economicamente l’area centroasiatica, strappandola all’egemonia russa.

Pechino entra così nell’ultrasecolare Grande Gioco per il dominio dell’Asia Centrale che da metà dell’Ottocento vide protagonisti la Russia zarista e l’Impero britannico e che sfociò nel lontano 1893 nella definizione arbitraria del confine sudorientale dell’Afghanistan, la cosiddetta Linea Durand, disegnata dall’omonimo ufficiale inglese per delimitare uno Stato cuscinetto utile a bloccare l’espansione russa in direzione dei mari caldi e per evitare che la potenza zarista entrasse a contatto con l’India britannica. La particolarità di questa linea di confine, che oggi separa l’Afghanistan dal Pakistan, era di dividere in due l’indocile etnia dei pashtun, che aveva già inflitto diverse sconfitte militari ai corpi di spedizione britannici che si erano avventurati oltre il limes nordoccidentale dell’impero anglo-indiano.

L’Afghanistan nacque dunque come Stato-cuscinetto fra il Raj Britannico e i domini centro-asiatici della Russia, caratterizzandosi sin dall’inizio come giustapposizione fittizia, imposta dalle potenze straniere, di due distinte aree geostoriche e abbracciando un gran numero di etnie assai differenti fra loro.

Questo non ha impedito che sull’Afghanistan continuassero gli appetiti imperialisti. Negli anni ’70 divenne oggetto delle mire espansioniste del Pakistan che, spalleggiato dagli Stati Uniti, tentò una penetrazione fondamentalista che avrebbe posto fine alla sua quasi secolare neutralità. Lo scopo era infiltrarsi nell’Asia Centrale sovietica, popolata di etnie musulmane.

La reazione dei russi fu dapprima, nel 1978, un colpo di Stato, attuato da militari addestrati in Urss, che portò al potere il Partito Democratico del Popolo Afghano, una formazione politica di orientamento stalinista e nazionalista.

Il regime politico del PDPA durò solo un anno e mezzo, insidiato dal dilagare della guerriglia fondamentalista islamica, finanziata dagli Usa, dal Pakistan e dall’Arabia Saudita. Dopo un colpo di palazzo in cui il presidente e segretario del partito Nur Muhammad Taraqi fu ucciso da una fazione rivale dello stesso PDPA guidata da Hafizullah Amin, che assunse il potere, l’esercito sovietico nel dicembre del 1979 invase il paese. I russi uccisero Amin e posero alla guida dello Stato Babrak Karmal, un altro esponente del PDPA.

Ne seguì una lunga aspra guerra, durata otto anni nei quali il fondamentalismo religioso assunse la direzione della “lotta contro l’ateo straniero”.

Anche in quel caso, nonostante la frammentazione etnica dei molti gruppi linguistici e delle varie tendenze dell’Islam, la grande potenza imperialista fu costretta a ritirarsi di fronte alla determinazione del pur variegato fronte avversario.

La storia dell’Afghanistan contemporaneo, nonostante la tenacia nel resistere alle invasioni straniere, è rimasta sempre confinata entro gli angusti limiti della sua arretratezza. L’incapacità di questo paese di esprimere una dinamica di sviluppo nazionale proprio, all’interno della “Vergine di Norimberga” di confini imposti dalle potenze coloniali, è un’ulteriore dimostrazione dell’impotenza del capitalismo a risolvere anche sulla scala dei secoli i problemi che esso stesso crea.

Non è un caso dunque se la declinante potenza americana, dopo due decenni di impegno militare, nella guerra più lunga dei quasi due secoli e mezzo della loro storia nazionale, debba dichiarare la bancarotta definitiva del tentativo di costruire una nazione asservita ai propri interessi imperiali. Un fatto in cui si misura quanto sia andato ormai in frantumi il sogno dell’egemonia americana sull’intero pianeta.  

 

 

 

 


Alta velocità

Tutta la canea del capitalismo, in ogni occasione in cui si scoprono le sue deformità, cerca di difenderlo addossando la colpa ad eventi naturali, o all’imponderabile, o alla fin fine agli operai. Per noi deterministi la colpa va ricercata nei rapporti di produzione. Lo conferma l’episodio del deragliamento del “Frecciarossa” nelle campagne di Lodi, nel quale hanno orribilmente perso la vita i due macchinisti.

Gli elementi riferiti dalla stampa circa le sue cause sono contraddittori. Sullo scambio si stavano eseguendo lavori di manutenzione programmata. Non avendoli terminati nelle ore notturne, le sole libere dal transito continuo dei treni, dalla mezzanotte alle quattro e mezza del mattino, gli operai della squadra, tutti esperti in quel tipo di intervento, hanno affermato che a fine turno avrebbero lasciato lo scambio bloccato in posizione normale.

Assicurano anche di aver interrotto l’alimentazione elettrica del motore di attuazione dello scambio: che dopo un’ora si presentasse in deviata non si può attribuire quindi ad un errato cablaggio interno dell’apparecchio, come ora si ipotizza (il che scaricherebbe le responsabilità penali e civili da Rete Ferroviaria Italiana al costruttore Alstom).

Nemmeno si spiega come dai sensori non sia arrivata nella cabina di controllo di Bologna l’indicazione di scambio in deviata, e il mancato segnalamento in linea e in cabina di guida, e il blocco automatico del treno.

Tutto questo al momento non si può sapere. Ma sicuramente ci sono state delle manchevolezze sia nella disposizione delle modalità delle manutenzioni sia nel controllo del buon funzionamento degli apparati di sicurezza e segnalazione.

Più in generale la causa deve essere individuata nella opposizione fra le necessità e l’importanza all’interno del sistema ferroviario fra la manutenzione e la circolazione, laddove la seconda gestione, quella che “rende”, tende sempre più a prevalere sulla prima. Si pretende sempre più di sveltire le manutenzioni e le riparazioni, fatti apparire secondari e da contenere per non pregiudicare la circolazione.

Ma quello che è il vero responsabile anche di questo disastro è la fretta, la folle angoscia del capitale di perder tempo: “il tempo è denaro”. Esasperata nella fase attuale di crisi è la necessità del capitale di riprodursi sempre più rapidamente.

La vera responsabilità dello svio del Frecciarossa l’ammette apertamente anche il confindustriale “Sole 24 Ore” (ad esagerare con i “tagli” poi ci rimettono!):
      «Sembra che nessuno abbia verificato, o, se qualcuno lo ha fatto, ha visto male la posizione del deviatore. Se fosse dimostrato, la spiegazione è la cattiva volontà: percorrere altri 500 metri nel freddo della notte a fine turno di lavoro può essere un dovere percepito come pesante.
      «Ma potrebbe anche essere accaduto per le pressioni indotte da un sistema che non può permettersi contrattempi: negli ultimi due anni le linee dell’Alta velocità si sono avvicinate alla saturazione, causando ritardi che ora si vuole evitare il più possibile per non compromettere l’immagine di un servizio che porta ricavi.
      «Quei 500 metri in più e la verifica sul deviatoio potrebbero essere stati considerati dai cinque tecnici o dai loro superiori come una perdita di tempo che avrebbe rischiato di mandare in ritardo anche il primo treno della giornata, con ripercussioni a catena sugli altri».

La storia della costruzione e dell’esercizio delle linee ferrate ha i suoi cicli, la sua epopea. Una rivoluzione che venne a sconvolgere la geografia economica di tutti i paesi, uno dopo l’altro del vecchio mondo, del nuovo, delle periferie. Per il capitalismo sono state uno sfogo di enormi investimenti e una corrispondente fonte di profitti, di speculazioni finanziarie e di rendite sui terreni attraversati.

Nel secondo dopoguerra, contemporaneamente alla imposizione della “motorizzazione di massa” e alla costruzione delle autostrade, il rendimento dell’esercizio ferroviario venne a declinare determinando dei crescenti passivi di bilancio, che gli Stati dovevano ripianare. Venuta meno, con la incipiente crisi, la possibilità degli Stati di sopperire ai passivi delle ferrovie, che era nell’interesse del sistema capitalistico nazionale nel suo insieme, si imponeva l’aumento notevole delle tariffe passeggeri. Questo avrebbe però reso le ferrovie non concorrenziali con l’aereo. L’investimento vi poteva ritrovare slancio solo con l’“Alta velocità”. Quindi si predispose, successivamente, in molti paesi di vecchio e nuovo capitalismo un vasto piano di costruzione di una rete nazionale di nuove linee con caratteristiche tali da consentire velocità maggiori ai convogli di trasporto di passeggeri.

Questa nuova infrastruttura spesso è venuta a colmare un irrazionale reale ritardo nelle vie di comunicazione nel capitalismo, venendo ad affiancare tortuosi tracciati di antica progettazione, come la Firenze-Roma, o a quadruplicare linee ormai sature.

Ma, e questa è un’altra causa di crisi, questo si è prodotto per l’effetto anarchico e caotico, e non pianificabile, della concorrenza fra i vari vettori: treni, aerei, auto, pullman, tutti volti ad accaparrarsi quote di mercato, laddove, secondo un elementare buonsenso, potrebbero, in una società non mercantile, armonizzarsi e interconnettersi fra loro in funzione delle loro diverse caratteristiche.

Ai “clienti”, che prima si chiamavano “passeggeri”, si è imposta così non solo l’utilità della nuova linea, ma anche l’Alta velocità. Tutti debbono correre; i treni a velocità “normale”, intorno ai 160 chilometri l’ora, non esistono più. Un altro falso bisogno creato dal capitalismo.

Fino a pochi decenni fa tutte le capitali d’Europa, e le maggiori città, erano collegate con i treni notturni della Compagnia dei Vagoni Letto: i “signori” vi cenavano conversando nella carrozza ristorante e dopo aver comodamente dormito vi tornavano la mattina per la colazione arrivando di buon tempo a destinazione. I proletari viaggiavano e dormivano, meno comodamente, sullo stesso treno.

Oggi, pagando tutti un biglietto “da signori”, a signori e a proletari fanno fare Roma-Milano in 3 ore, bloccati in una postazione da aereo. Ma poi “hanno tanto tempo libero”! per far cosa? per lavorare di più, naturalmente, e, alla fin fine, stancarsi, logorarsi di più. E chi ci guadagna?

È chiaro che ormai, come tutto il capitalismo, anche il sistema ferroviario per resistere alla caduta del saggio del profitto si deve fondare sulla dissennata e cieca esasperazione della velocità. Non solo la manutenzione è affidata ad un personale ridotto e senza adeguati riposi giornalieri e settimanali, ma deve esser fatta a notte fonda e di fretta: non è più possibile, come usava nelle gestioni precedenti, instradare temporaneamente i treni sull’altro binario, perché ciò comporterebbe un ritardo, ovvero la stesura di orari che li prevedano.

Per opporsi a queste stragi sul lavoro le classi lavoratrici hanno una sola via: la ripresa della lotta di classe in difesa della loro integrità fisica, contro ritmi stressanti e accorpamenti di mansioni, oltre che per un salario consono alle necessità e ai bisogni.

E domani, nel comunismo, andremo ragionevolmente “piano”, per riguadagnarci la vita e tutto, ma proprio tutto, il tempo della vita.

 

 

 

 

 


PAGINA 2


La coerente battaglia del partito si staglia su un mondo borghese in decomposizione
Riunione a Roma, 24‑26 gennaio 2020
[RG 136]
 
 
[Tutte le riunioni]
  
Seduta del sabato
Sciopero in Francia contro il taglio alle pensioni
Crisi economica mondiale
Questione militare: l’opposizione proletaria alla guerra Italia
Attività sindacale del partito
Scontro fra Stati e classi in Medioriente
Seduta della domenica
La funzione dei capi proletari: Lenin, Luxemburg, Liebknecht [ Español ]
La rivoluzione ungherese del 1919
Storia del movimento in Cina e del PCdCEspañol ]
La guerra civile in Italia e il PCd’I
Le prime guerre nazionali dell’India indipendente
 

 

Dopo ben 60 anni siamo tornati a Roma per la riunione generale del partito.

Un sentito e corale ringraziamento è andato ai nostri compagni locali per la davvero perfetta organizzazione e la splendida accoglienza e ospitalità, ogni accorgimento era stato predisposto con cura e tutto si è poi dimostrato puntuale e impeccabile.

I lavori si sono svolti in un ambiente luminoso, vasto e tranquillo, nello stesso immobile dove eravamo sistemati anche per la notte, il che ci ha evitato ogni perditempo.

Le sedute sono state quattro: dal venerdì pomeriggio alla domenica mattina, nelle quali a stento siamo riusciti a prendere in considerazione la gran mole di lavoro che la nostra pur piccola compagine riesce a produrre, veramente notevole in quantità, argomenti e ambiti.

L’armonia e la coerenza dei diversi contributi si avvale di una spontanea salda centralizzazione cui siamo adusi da sempre, con una fitta corrispondenza e continuo, anche quotidiano, scambio di informazioni dei compagni con il centro e all’interno dei gruppi di lavoro, il che è reso possibile, e funziona di fatto, in quanto attingiamo tutti agli stessi principi, ad un indiscusso univoco programma e a ben collaudate norme tattiche.

Siamo convinti che i buoni risultati empirici di questo nostro metodo comunista, rigorosamente e felicemente impersonale, fraterno e anti-democratico, che ignora la concorrenza fra gruppi e lo strumento della polemica, si estenderà con naturalezza, in un domani meno sfavorevole alla lotta rivoluzionaria di classe, anche al partito dispiegato internazionale.

Questo il programma delle relazioni esposte.

Al sabato pomeriggio:
1. Andamento e considerazioni circa lo sciopero in Francia contro il taglio alle pensioni, allora ancora in corso;
2. Il divenire recente della crisi economica mondiale;
3. Dello studio sulla questione militare, l’opposizione proletaria alle guerre della borghesia italiana nel primo Novecento;
4. Aggiornamento sulla corrente attività sindacale del partito;
5. Lo scontro infinito fra Stati e classi in Medioriente.

La domenica:
6. La funzione dei capi proletari Lenin, Luxemburg, Liebknecht riaffermata contro lo stalinismo nella rivista “Bilan” del 1934‑37;
7. Circa la rivoluzione ungherese del 1919 abbiamo ascoltato della contrapposizione, nel giugno 1919, fra i socialtraditori e i comunisti;
8. Ricapitolando sulla storia del movimento in Cina è stata trattata l’origine del PCC;
9. A documentare come il PCd’I affrontò la guerra civile in Italia abbiamo descritto gli scontri armati a Firenze e a Empoli nel 1921;
10. Come ultimo rapporto si è trattato delle prime guerre nazionali dell’India indipendente.

Di altri studi abbiamo dato solo uno schema e rimandati ad una delle prossime nostre riunioni.


Lo sciopero in Francia

Il rapporto sul movimento in Francia è pubblicato nelle pagine di questo stesso giornale.


Origini del Partito Comunista Cinese

L’Internazionale Comunista aveva stabilito di non parlare di movimenti democratici borghesi, ma di movimenti nazionalisti rivoluzionari, il che non era semplicemente una diversa formulazione ma indicava una precisa politica rivoluzionaria per le colonie e le semi‑colonie che diffidava dell’alleanza con la classe borghese indigena, incline ad accordarsi con gli oppressori stranieri pur di mantenere i propri privilegi, e si rivolgeva a quei movimenti nazionali che erano davvero sul terreno di una lotta rivoluzionaria. In base a questa prospettiva diveniva fondamentale lo stabilire rapporti con i movimenti rivoluzionari che andavano sviluppandosi nei vari paesi sottomessi all’imperialismo. Per quanto riguarda la Cina il movimento nazionalista rivoluzionario si esprimeva nel cosiddetto Movimento del 4 Maggio. Furono proprio gli elementi più radicali di questo movimento tra i primi ad aderire al comunismo.

Nel suo rapporto per l’Esecutivo dell’Internazionale, datato primo settembre 1920, Vilensky, che gestiva il Segretariato dell’Asia Orientale, un organismo appena formato per la guida dell’attività rivoluzionaria nei paesi dell’Estremo Oriente, scrisse che il compito organizzativo del Segretariato era di «svolgere il lavoro di organizzazione del Partito in Cina stabilendo delle cellule comuniste tra le organizzazioni degli studenti e le organizzazioni dei lavoratori nelle zone industriali costiere».

Il primo gruppo comunista si sviluppò a Shanghai, dove la presenza di un forte sviluppo industriale aveva permesso la formazione di una numerosa e concentrata classe operaia, verso la quale si indirizzava il lavoro dei comunisti. Il gruppo di Shanghai divenne il fulcro del lavoro comunista in Cina, funzionando già da centro del partito fin dal 1920. Successivamente si formarono gruppi comunisti anche a Pechino e Canton, dove però inizialmente anche alcuni anarchici avevano aderito alle organizzazioni comuniste. Altri gruppi comunisti, di dimensioni ed importanza ancora minori rispetto agli altri, si erano formati a Wuhan, Jinan e Changsha. Inoltre esistevano altri due gruppi all’estero, uno in Giappone e un altro in Francia.

Si trattava di gruppi piccoli formati da pochi compagni, che non avevano ancora reciso completamente i legami con i gruppi di studenti ed intellettuali sorti precedentemente. Nonostante ciò la costituzione del Partito Comunista in Cina non avvenne su compromessi sulla teoria o sulla tattica tra i vari gruppi, ma la maturazione in partito si informò all’unica dottrina e all’unico programma del comunismo, in quanto «con l’avvento della Terza Internazionale Comunista, con centro unico mondiale, avviata verso il Partito Comunista Internazionale, la classe operaia ha acquisito quella che Lenin chiamava “coscienza organizzativa”, il contenuto programmatico, tattico, la dimensione planetaria, la struttura piramidale della sua organizzazione politica» (“Il partito non nasce dai ’circoli’”)

Benché i primi gruppi comunisti che si formarono in Cina avessero sicuramente una composizione abbastanza variegata, riunendo anche ex‑anarchici, ex‑socialisti utopisti, ex ferventi nazionalisti e tutto un assortito mondo di intellettuali radicali, non ci fu nessuna concessione alle dottrine non marxiste di sinistra.

Questo è chiaro soprattutto in riferimento all’anarchismo. Sicuramente, in questa fase iniziale, c’era una consistente presenza di anarchici, ma nel giro di pochi mesi questi abbandonarono le organizzazioni comuniste a causa della stridente incompatibilità tra il marxismo e l’anarchismo. L’indisponibilità degli anarchici a qualunque lavoro organizzato, e soprattutto l’avversione alla necessità della dittatura del proletariato, ben presto determinarono la separazione definitiva tra anarchici e comunisti. La polemica con gli anarchici si svolgeva esattamente nei termini in cui essa avveniva in tutti i paesi capitalisticamente più sviluppati, con gli anarchici cinesi che usavano gli stessi argomenti dei loro simili occidentali per attaccare il marxismo, e, nel respingere le argomentazioni anarchiche, i marxisti cinesi erano sullo stesso terreno dei comunisti di tutti i paesi. Nessuna concessione fu fatta ai giovani militanti anarchici sulla questione della dittatura del proletariato: solo la rivoluzione, instaurando la dittatura del proletariato avrebbe potuto far entrare la Cina nell’era del socialismo, tutte le altre soluzioni avrebbero portato alla sconfitta della rivoluzione in Cina, sopraffatta dalle forze combinate delle classi sfruttatrici indigene e delle borghesie straniere.

La dittatura del proletariato a principio base del comunismo fu solennemente affermata nel Manifesto dei comunisti cinesi del novembre del 1920, documento utilizzato come base di adesione dei nuovi membri nel partito. Nonostante l’eterogenea provenienza dei primi militanti, non fu l’improvvisazione teorica e il compromesso con movimenti politici affini ad unire i primi gruppi comunisti, ma, sotto la guida dell’Internazionale, la nascita del Partito in Cina avveniva sulla linea della dottrina storica.

Il primo Congresso del PCC si tenne a Shanghai dopo il 23 luglio 1921, concludendo i lavori ai primi di agosto. Vi parteciparono 12, forse 13 delegati di 7 gruppi di altrettante città, in rappresentanza di 53 membri delle organizzazioni comuniste in Cina e all’estero, e con l’intervento di due inviati dell’Internazionale.

Acquisita la selezione dagli anarchici rimanevano in alcuni compagni gravi lacune nella conoscenza anche dei concetti fondamentali del marxismo.

Tutto il dibattito si sviluppò intorno a due posizioni. Quella della minoranza sosteneva che la classe operaia non era ancora preparata e che le era praticamente sconosciuto il marxismo e quindi il partito comunista avrebbe dovuto attraversare un lungo periodo di studio, di educazione e di proselitismo verso le masse per aumentarne il livello di coscienza. La seconda posizione, quella della maggioranza, esprimerà tutti i documenti scaturiti dal congresso. Il piccolo partito comunista si presentava compatto e sicuro dello sviluppo che avrebbe avuto attraverso un lavoro pratico e teorico volto verso la classe operaia, suo punto centrale di riferimento, così come dicono tutti i documenti usciti dal primo congresso e rintracciati negli archivi del Comintern.

I punti base della bozza furono approvati da tutti i partecipanti. Apparvero posizioni divergenti sulla questione se i militanti del partito avrebbero potuto ricoprire cariche governative ufficiali ed essere membri del parlamento. I due punti di vista si confrontarono ma non arrivarono ad una decisione finale rimandando la questione al secondo congresso. L’uno sosteneva che era possibile solo ed esclusivamente sotto la direzione del partito e col permesso del Comitato Esecutivo, l’altro negava senz’altro la partecipazione al parlamento borghese.

Anche sulla questione dell’atteggiamento che il partito avrebbe dovuto assumere nei confronti degli altri partiti o fazioni si delinearono due posizioni e ne scaturì un’accesa discussione. Una parte sosteneva la «necessità di cooperare con tutti gli elementi che si oppongono ai nostri comuni nemici, i signori della guerra, che sono nemici di tutte le altre classi della società». La seconda posizione riconosceva la necessità di azioni comuni e di collaborazione con altre classi al solo fine del rafforzamento del partito per la presa rivoluzionaria del potere appena le condizioni fossero favorevoli. La questione del rapporto con altri partiti o fazioni era certamente di rilevanza capitale per il giovane movimento comunista cinese, che agiva in un contesto prevalentemente precapitalistico, dove lo sviluppo industriale era appena agli albori e il giovane proletariato industriale era estremamente inferiore di numero rispetto alle sterminate masse contadine. Data la situazione era inevitabile stabilire una corretta linea rivoluzionaria che contemplasse l’atteggiamento da tenere verso i rappresentanti politici delle altre forze sociali.

La questione era già stata discussa, e risolta, dal movimento comunista mondiale. L’Internazionale aveva chiaramente individuato nei paesi oppressi la presenza di due distinti movimenti: da una parte un “movimento borghese-democratico nazionalista” con il suo programma di indipendenza politica e di ordine e sviluppo borghese, dall’altra “quello dei contadini incolti e poveri e degli operai”, che lottavano per la loro emancipazione da ogni tipo di sfruttamento. In questa situazione bisognava “combattere energicamente” tutti i tentativi di quei movimenti pseudo-rivoluzionari che nascevano nelle colonie mascherandosi da comunisti (come il Kuomintang in Cina), riconoscendo come condizione indispensabile per il sostegno al movimento rivoluzionario che si sviluppava nei paesi coloniali il raggruppamento e l’organizzazione dei veri comunisti di quei paesi con la chiara consegna di combattere il movimento borghese e democratico. Per l’Internazionale si dovevano evitare fusioni con quei movimenti e bisognava conservare «sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale».

È su queste premesse che si indirizza il nascente, piccolo e debole partito comunista. Conscio dei suoi limiti li analizza e li risolve, e adotta all’unanimità gli elementi di base del Programma del Partito che stabilisce: «1) Il proletariato e l’esercito rivoluzionario devono rovesciare il potere statale della classe capitalista (...); 2) Introdurre una dittatura del proletariato fino a quando la lotta di classe non è finita e tutte le distinzioni di classe abolite; 3) Distruggere il sistema della proprietà privata capitalista ed espropriare impianti, terreni e fabbriche e trasformare i mezzi di produzione in proprietà pubblica; 4) allearsi con la Terza Internazionale».

Sotto la guida dell’Internazionale, il Partito Comunista Cinese fu fondato nel 1921 principalmente da intellettuali, ma da lì a pochi anni la dinamica sociale polarizzò le forze in campo indirizzando il proletariato cinese a militare sotto le bandiere del PCC e del comunismo.


La rivoluzione in Germania

Per affrontare un aspetto se si vuole parallelo al giudizio sulle vicende del tentativo rivoluzionario in Germania, la compagna ha riferito della difesa che, dopo più di un decennio da quegli avvenimenti, la nostra Frazione all’estero dovette fare delle figure di Rosa Luxemburg e di Carlo Liebknecht, sminuiti già allora nella loro grandezza di comunisti da parte dello stalinismo, e accusati di essere personalmente responsabili della sconfitta di quella rivoluzione.

“Bilan”, come altri organi della Frazione, dedicò diversi articoli “a Rosa e a Carlo”. Su “Bilan” del gennaio 1934 troviamo l’articolo “Il significato del capo proletario, circa la commemorazione di Lenin-Liebknecht-Luxemburg”. Possiamo così riassumere i punti salienti di questo articolo.

I capi del partito si allineano su di un solco segnato, impersonalmente, dalla storia e definitivamente previsto dalla dottrina di classe; ma sono pur sempre dei combattenti reali, con le loro forze e capacità, benché fuori dal comune.

Di fronte a un Lenin imbalsamato ed esposto fuori dalle mura del Cremlino (“Voilà du pharaonisme”, Trotski) vi si afferma: «La canonizzazione del capo proletario rappresenta l’annullamento della sua opera, del suo ruolo, della sua vita. Né Lenin, né Liebknecht, né Luxemburg, rappresentano geni “accidentali”, individui isolati dotati di virtù intrinseche, superuomini giganteschi che irrompono improvvisamente nell’arena sociale per modificarne l’aspetto secondo le loro intenzioni e secondo la capacità del loro genio. Questi grandi capi, il cui anniversario commemoriamo oggi, il capo proletario in generale, non rappresentano entità misteriose e trascendenti, che sfuggono all’interpretazione, ma sono i prodotti di un periodo storico, l’espressione più chiara delle forze rivoluzionarie di una determinata epoca».
     «In tutta la lotta, così come nel momento supremo, la velocità della soluzione e della decisione può appartenere solo a un circolo molto piccolo e a volte a un singolo individuo (...)».

Ma, «se Lenin fosse stato assente nella notte del 7 novembre, o se un malore avesse afflitto il suo corpo, non significa necessariamente che la rivoluzione sarebbe stata schiacciata. Il lavoro della classe che aveva prodotto Lenin aveva prodotto anche altri elementi, messi in secondo piano dalla presenza di Lenin nel corso degli eventi, ma che sarebbero sorti, con minore o altrettanta capacità, presumibilmente la stessa notte storica del 7 novembre».

La vittoria della rivoluzione comunista richiede la presenza di un partito e di capi non corrotti. «In tempi di pericolo supremo, non è in particolare la violenza contro la classe operaia che salverà la borghesia, bensì è la corruzione del partito della classe operaia e dei suoi capi».

La conservazione e l’affilamento delle armi per la lotta proletaria, dottrina e programma, sono demandati al partito e alla sua gerarchia.
     «Le armi per la lotta proletaria si trovano in una serie di formule centrali che permetteranno al proletario di intervenire vittoriosamente in tutti i movimenti di massa determinati dagli antagonismi sociali. La produzione di queste formule centrali rappresenta un lavoro laborioso che dura diversi anni. Abbiamo bisogno di un’organizzazione in cui tutti questi sforzi siano condensati».

Lo sviluppo teorico della classe lavoratrice è un portato internazionale, che matura e si affina nel concorso dei comunisti dei diversi paesi.
     «La classe operaia in Russia si stava sviluppando in condizioni particolari: la coesistenza di un potere feudale e un giovane capitalismo altamente concentrato, un contadiname arretrato e un proletariato estremamente denso, nei centri industriali e nelle grandi città. Questo proletariato poteva trarre ispirazione dalle esperienze che i lavoratori avevano fatto in altri paesi durante la loro lotta contro il potere capitalista (...) Lenin (...) ascoltò attentamente la voce della storia della classe operaia mondiale e russa e riuscì a costruire il partito bolscevico».

In una situazione di profonda crisi del movimento comunista, è falsa la pretesa della Internazionale ormai stalinizzata di poter creare con la sola forza, e allo stesso tempo, quadri, stati maggiori, capi.
     «Lenin è presentato come il capo che ha prodotto gli sconvolgimenti sociali che si sono conclusi nell’ottobre del 1917. Pertanto, sarebbe sufficiente formare – alla luce della sua politica – altri stati maggiori, altri capi, e il proletariato potrebbe tranquillamente riprendere il cammino della sua lotta rivoluzionaria. L’intero problema del capo proletario è quindi posto su una base invertita: in un periodo di riflusso rivoluzionario, non ci sono capi in grado di modificare il dispiegarsi delle situazioni».

La conclusione veritiera è, invece:
     «Il problema rivoluzionario non è di individui, ma di classe, e la modifica della situazione può dipendere solo dalla ricostituzione dell’organismo della classe operaia».
     «Lenin stesso, se fosse sopravvissuto alla sconfitta del proletariato tedesco, non avrebbe potuto, a comando, determinare un altro corso rispetto agli eventi che abbiamo vissuto. Avendo la sconfitta del 1923 significato un cambiamento di grande importanza a vantaggio del capitalismo, Lenin sarebbe probabilmente stato sconfitto e avrebbe subito il destino di Trotski, di Bordiga e di tutti gli altri comunisti banditi dai ranghi internazionali guadagnati al centrismo».

Il partito rinascerà quindi sulle orme di Marx, Lenin, Liebknecht, Luxemburg. Sia il programma sia il piano tattico sono immutabili. Solo il secondo prevede diverse soluzioni a fronte di diverse situazioni storiche generali. Compito del capo rivoluzionario è mantenere nel partito la coerenza fra direttive tattiche e quadro storico reale.
     «Proprio come per Marx ed Engels, anche per Lenin e la Luxemburg potrebbero “trovare” una flagrante contraddizione tra le dichiarazioni di principio e le loro affermazioni politiche corrispondenti a particolari contingenze. In realtà, non ci sono affatto contraddizioni: le dichiarazioni di principio abbracciano una intera epoca storica, culminata nell’insurrezione del proletariato; le formulazioni politiche contingenti e di agitazione servono a connettere attorno all’avanguardia comunista la massa dei lavoratori e delle classi medie».

Altro articolo degno di nota che “Bilan” pubblica sul n.27 di gennaio-febbraio 1936 si intitola: “Quali sono gli eredi di Lenin, Luxemburg, Liebknecht?”. Qui si reagisce vigorosamente contro le vergognose speculazioni che si stavano diffondendo nel movimento operaio riguardo Lenin, Luxemburg, Liebknecht.
     «In un momento in cui socialisti e centristi commemorano le tre “L” preparano gli operai per l’Unione Sacra, approvando, in nome del “leninismo”, l’aggravamento dello sfruttamento dei lavoratori russi». O, al contrario, «la bancarotta del “leninismo” e il trionfo del “luxemburghismo” sono proclamati in ogni angolo della terra».
     «Noi non riconosciamo né il “leninismo” né il “luxemburghismo”, ma solo un metodo di indagine storica lasciato in eredità da Marx e che, in diversi periodi della lotta di classe, ha permesso a un Lenin, a una Luxemburg di sistematizzare o esprimere le lezioni apprese da queste fasi in un insieme di principi. Questi principi sono pietre miliari per avanzare e non formule vuote di contenuto come si vorrebbe far credere collegando Lenin e il suo discorso sulla cooperazione al “socialismo in un paese”, Rosa e la sua famosa brochure della prigione, al “comunismo democratico”, anti‑partito, anti‑Lenin. Non possono essere messi l’uno contro l’altro, come la lotta degli operai tedeschi del 1919 non può essere contrapposta a quella degli operai russi del 1917».

Dunque siamo noi, il nostro partito, gli eredi di Lenin, Luxemburg, Liebknecht; questo conclude l’articolo pubblicato su “Bilan” del gennaio-febbraio 1937, “Lenin-Luxemburg-Liebknecht”.
     «Affrontare la realtà presente con il lavoro di coloro che erano i nostri maestri è riannodare i fili dell’evoluzione storica che i loro detrattori, coloro che mummificano i loro corpi e principi sperano di aver spezzato per sempre in nome della sopravvivenza del mondo capitalista».

Sull’altro lato della polemica, in totale coerenza con quanto scritto in passato e con quello che scriveremo in futuro, l’articolo sottolinea con forza che siamo noi i soli continuatori storici di quell’era eroica, contro gli “estremisti” che fanno di Lenin il responsabile della degenerazione dell’IC con la sua concezione del partito centralizzato.

L’articolo conclude ribadendo che le frazioni della Sinistra comunista sono i loro continuatori.
     «Oggi, Lenin, Luxemburg, Liebknecht si ritrovano nelle frazioni della Sinistra comunista internazionale che ne sono gli eredi legittimi, loro continuatori a cui la storia ha affidato il difficile compito di proseguirne il cammino. Come i loro maestri, i comunisti internazionalisti si stanno muovendo verso le posizioni e le forme di lotta più accentuate che l’evoluzione della lotta di classe richiede nella fase di decadenza profonda del sistema capitalista. È in questo senso che hanno combattuto e combatteranno contro tutti i tentativi di riportare le loro posizioni e la loro attività ai catechismi “ricavati” da Lenin o da Rosa, perché sono il mezzo per falsificare la loro opera e impiegarli non per la vittoria, ma per la sconfitta proletaria. I principi che ci hanno lasciato in eredità e che sono il frutto dell’esperienza storica, rimangono la nostra eredità, ma, proprio come la lotta di classe non si ferma alla loro morte, il nostro lavoro ideologico e programmatico deve continuare progressivamente per preparare la classe operaia per le ore decisive in cui lancerà il suo assalto rivoluzionario e getterà le basi per una nuova società in cui l’opera di coloro che hanno spianato la strada per l’emancipazione del proletariato non sarà più mummificata ma riceverà infine, il suo vero significato».


(Il resoconto segue nel prossimo numero)

 

 

 

 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
 
La vita degli uomini o quella del Capitale !
 
Il padronato e il suo regime hanno messo in conto il sacrificio di migliaia di vite per la difesa dei profitti – I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) si accordano per fermare gli scioperi degli operai che si rifiutano di farsi immolare
 
In difesa della salute della classe lavoratrice: fabbriche ferme e salario pieno !

L’epidemia del coronavirus sta facendo emergere il cinismo senza fine della classe padronale e dei suoi regimi politici in tutti i paesi, disposti a sacrificare la vita di migliaia di uomini pur di difendere i profitti e quelle che chiamano “economie nazionali”, che altro non sono che il capitalismo e i loro privilegi.

I provvedimenti per fermare l’espandersi dell’epidemia sono rimandati il più possibile dai governi borghesi di tutti i paesi per evitare la chiusura di fabbriche e aziende.

In Italia, ancora adesso che la cosiddetta “zona rossa” è stata estesa a tutto il territorio nazionale e che una martellante campagna è stata lanciata affinché tutti si chiudano in casa, le aziende restano aperte e la maggior parte dei lavoratori vi si deve recare, anche in Lombardia dove è la massima virulenza del contagio.

Questa condotta ha compromesso l’efficacia del contenimento e ha, e avrà ancor di più un costo enorme di vite umane. In questo modo i padroni e il loro governo di turno dimostrano che per essi è pienamente accettabile, anzi è necessario, che una quota di lavoratori debba morire per assicurare i profitti all’impresa, cosa che d’altronde accade anche senza epidemia per i quotidiani incidenti mortali sul lavoro e per le malattie professionali.

Il regime padronale, tramite i mezzi d’informazione con tutti i suoi buffoni, agita il patriottismo e invoca la fratellanza, la solidarietà e l’unità nazionale. “Fratelli d’Italia” è la più infame delle ipocrisie. Gli operai non hanno dei fratelli ma dei nemici di classe negli imprenditori, che li vogliono al lavoro a rischio della loro vita per garantirsi i profitti. I fratelli degli operai non sono i padroni ma i lavoratori di tutti i paesi, nei riguardi dei quali ciascuna borghesia nazionale si comporta come quella italiana. Mentre invocano l’unità nazionale e la disciplina, padroni e governo lavorano per far pagare anche questa crisi, economica e sanitaria, alla classe lavoratrice!

Il fatto che debbono stare a casa tutti tranne i lavoratori mette in chiara luce come la classe operaia sia una classe separata e contrapposta a tutte le altre.

Perfino i carcerati non sono rimasti inermi ad aspettare che la sorte decidesse a chi di loro sarebbe toccato morire. Dovevano i lavoratori restare in silenzio nelle galere aziendali?

Molti lavoratori lo hanno capito, si sono rifiutati di essere carne da macello e in diverse fabbriche hanno iniziato a scioperare: Fincantieri, Whirlpool, Bitron, Gkn, FCA, Arcelor Mittal, Thyssen Krupp, Electrolux, Dana, Tecnoclima, porto di Genova (Voltri), Gls, Tnt, Sda...

Gli scioperi hanno fatto carta straccia dell’Ammonimento del 24 della Commissione di Garanzia, emesso già il 24 febbraio, a non scioperare fino al 31 marzo. Diversi sindacati di base – Usb, SI Cobas, Cub, Adl Cobas – e la opposizione in Cgil hanno dato il loro immediato sostegno proclamando scioperi locali e nazionali, di categoria e generali, rivendicando la chiusura delle aziende ed il salario pieno.

A Modena il Coordinatore provinciale del SI Cobas e altri 7 lavoratori della Emiliana Serbatoi sono stati arrestati durante un picchetto per uno sciopero, denunciati e rilasciati dopo alcune ore: gli operai possono riunirsi per produrre profitto, ma non per fare assemblee, picchetti e scioperare a tutela della loro salute!

I sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) si sono dimostrati ancora una volta complici del padronato e del regime politico borghese. Prima hanno persino emesso appelli comuni con gli imprenditori affinché venisse “tutelata la produzione”. Dopo che gli scioperi hanno iniziato a diffondersi hanno rincorso gli operai per non perderne il controllo e affinché non si organizzassero coi sindacati di base, ed il 12 marzo Fim, Fiom e Uilm hanno chiesto alle aziende di concordare con loro “fermate produttive” affermando che, laddove non fosse stato possibile, avrebbere proclamato lo sciopero.

Ieri 14 marzo le dirigenze nazionali confederali di Cgil, Cisl e Uil hanno firmato con gli industriali e col governo un “Protocollo” che conferma la prosecuzione della produzione prevedendo solo fermate temporanee per l’applicazione di cosiddette misure preventive che non garantiscono affatto dal contagio (mascherine) e che spesso non possono essere rispettate (distanza).

“Per il bene del Paese, per la tutela della salute di lavoratrici e lavoratori. L’Italia non si ferma”, ha dichiarato il capo del governo. Che significa: per il bene del capitale, dei profitti e della borghesia, che i lavoratori non si fermino! e possono anche morire, e muoiono ogni giorno!

È una guerra, una guerra di classe. Ogni borghesia nazionale approfitta anche del virus per continuare la sua guerra alle altre, a prezzo della vita dei lavoratori di tutti i paesi. Come domani farà con la guerra guerreggiata.

Per tutti i capitalismi, che da anni affondano nella crisi di sovrapproduzione, una fermata produttiva di alcune settimane può anticipare il loro comune tracollo, quello di tutto il capitalismo mondiale, Cina inclusa. Per questo tutti i regimi borghesi agiscono in questo modo spudoratamente irresponsabile e dissennato: non è incapacità ma un freddo calcolo.Sono le stesse ragioni materiali che hanno portato negli ultimi decenni ai tagli ai sistemi sanitari nazionali, che oggi di fronte all’epidemia manifestano la loro inadeguatezza.

Forse questa crisi sanitaria passerà senza esiti catastrofici, ma la direzione di marcia e il senso profondo della condizione di questa società sta emergendo in modo finalmente chiaro: la vita del capitalismo implica il sacrificio della classe operaia.

E i sindacati di regime hanno pienamente accettato questo principio per cui se affonda l’economia capitalistica i lavoratori non avrebbero via di uscita e dovrebbero affondare con essa, come gli schiavi antichi incatenati ai remi delle galere: “O capitalismo o morte” è il dogma a cui si sono sottomessi per sempre.

Il sindacalismo di classe, non subordinando la difesa dei bisogni dei lavoratori ad alcun presunto interesse comune alle classi e rigettando la ipocrita ideologia della “difesa del bene del paese”, lotta invece per il fermo produttivo, con salario pieno a tutti i lavoratori, siano essi fissi o precari.

Così difendendosi, la classe operaia si pone di per sé sul terreno della società futura, del comunismo internazionale, libero da ogni calcolo mercantile e di sottomissione salariale, sul terreno della rivoluzione che verrà finalmente a seppellire il cadavere di questa insana e insanabile società.

 

 

 

 


Dagli Usa
Nel capitalismo i provvedimenti contro il Covid‑19 significano nessuna difesa per la classe operaia

Il capitalismo americano, nel suo modo sicuro di sé, si è trovato a fare i conti con un nemico che non era pronto a combattere: un’epidemia virale in rapida diffusione. Nonostante i molti avvertimenti della situazione in Cina e i ripetuti allarmi dei Centers for Disease Control, la classe dominante non ha fatto nulla a difesa di chi sfrutta e che pretende proteggere. Così, immancabilmente, il virus si è diffuso in tutto il pianeta.

A causa di questa incipiente pandemia i mercati hanno vacillato e sono crollati, e il panico mediatico si è diffuso tra la popolazione. Il risultato è una crisi economica in aggiunta all’epidemia virale. Ma il governo borghese ha solo segnalato lo interrompersi di quella che prima era un’impennata finanziaria. In risposta gli Stati Uniti con estrema prontezza hanno iniettato finanziamenti nell’economia. Gran parte del sollievo finanziario, per la somma di 1,5 miliardi di dollari in prestiti a breve termine, sarà utilizzato per attenuare le fluttuazioni del mercato. La classe operaia può solo sperare che le arrivi qualche briciola di tutto questo, un domani, quando la pandemia sarà passata.

Mentre il Parlamento avrebbe approvato un congedo di malattia retribuito, il pretesto del passaggio in Senato lo sta bloccando. Comunque il disegno di legge offre alle imprese e alle società la possibilità di non concederlo, il congedo di malattia. Le proposte immediate del governo per il sostegno finanziario ai lavoratori e alle loro famiglie sono solo sotto forma di riduzioni alle tasse. Quindi la possibilità di tirare avanti per la classe operaia resta solo nel continuare la sua sottomissione al regime del lavoro, a rischio di ammalarsi.

Oltre alla rapida mobilitazione per sostenere il capitale finanziario, il governo federale americano ha anche iniziato a ridurre drasticamente i servizi sociali per recuperare le spese. Le riforme del Supplemental Nutrition Assistance Program, ora prevedono solo 3 mesi di buoni pasto, a meno che gli assegnatari non continuino a lavorare.

È stata proposta anche una dilazione per gli interessi sui prestiti agli studenti. Ma i laureati dovranno comunque andare al lavoro per trovare i soldi per pagare i prestiti, se vogliono sperare di liberarsene prima che il tasso d’interesse torni a crescere. Anche gli sconti sui combustibili sono revocati di fronte a questa epidemia. Ancora una volta davvero ognuno per sé.

La classe dominante sta mostrando quale è la sua priorità, che non è la stessa della classe operaia, cioè il continuo sviluppo economico ottenuto dall’espandersi dei mercati e della produttività. Così, per mantenere in vita la sua economia, la classe dominante continuerà a costringere la classe operaia a lavorare anche durante la pandemia.

Questa deforme priorità si ripercuote anche sulla gestione della crisi della sanità. Nonostante l’aumento delle possibilità di infezione che deriva dal continuare a lavorare, il governo federale ha praticamente abbandonato l’effettuazione dei test virali. E l’affermazione del presidente che un’azienda negli Stati Uniti sarebbe pronta a provvedere ad un programma di test e avrebbe già preparato le strutture suona farsesca, nel migliore dei casi. Il sistema medico, privatizzato, non offre la possibilità di risposte adeguate a una rapida epidemia. Da tempo gli interessi del capitale hanno plasmato il sistema sanitario americano, e questo si sta ora dimostrando incapace di fornire assistenza alla classe operaia e ai disoccupati, che corrono il rischio di infezione ogni giorno che la pandemia continua.

Questo fenomeno non è solo negli Stati Uniti: in tutto il mondo gli interessi del capitalismo si scontrano con il contenimento del virus. Ovunque ci si aspetta che la classe operaia resti al lavoro, nonostante che si sia contagiosi anche prima di mostrare di essere infetti.

In Cina, dove il lavoro continua da febbraio, l’aumento del prezzo degli alimenti sta creando condizioni di vita intollerabili. Nonostante il governo cinese affermi di redistribuire il cibo, il partito al potere chiede che gli operai tornino al lavoro perché, domani, i prezzi tornino a scendere.

Benché si mantengano i proletari al lavoro, tutti le riunioni sono state proibite, e in Italia è stato imposto il divieto delle assemblee sindacali.

La società capitalista ha gettato via la sua maschera di coesistenza pacifica tra le classi per mettere a nudo il suo vero atteggiamento verso la classe operaia: lavorare, nonostante la pandemia, per arricchire l’economia.

Questo ha fatto sì che molte organizzazioni della classe operaia chiedessero di fermare il lavoro nei settori non essenziali fino a quando la pandemia non sia passata.

In Italia gli scioperi si stanno diffondendo in tutto il paese e i principali sindacati di base – Usb, S.I. Cobas, Cub – li sostengono chiedendo scioperi nazionali in tutte le industrie non essenziali per la lotta contro l’epidemia, chiedendo la chiusura delle fabbriche e il pagamento pieno dei salari. I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil), invece, il 14 marzo hanno firmato un accordo con i padroni e il governo per non fermare la produzione e solo chiedono che “misure di sicurezza”.

Anche i dipendenti degli stabilimenti di assemblaggio di automobili in Canada si sono rifiutati di lavorare a causa delle preoccupazioni per il loro stato di salute. Nel Regno Unito, dove il Parlamento e il Primo Ministro hanno deciso di aspettare che l’epidemia virale passi “in modo naturale”, i lavoratori hanno iniziato a organizzare scioperi per costringere il governo e i datori di lavoro a riconoscere le esigenze e la sicurezza della classe operaia.

È solo attraverso l’unione della classe operaia su questo fronte sindacale che i governi capitalisti riconosceranno le loro esigenze e richieste. E tutti questi scioperi hanno le stesse richieste: l’accesso di tutti alle cure e l’interruzione del lavoro durante l’epidemia.

Negli Stati Uniti, la struttura burocratica della Federazione Americana del Lavoro (AFL‑CIO) non ha fatto nulla per forzare la mano del governo. Nonostante che sarebbe in grado di schierare un fronte sindacale simile a quello italiano, la dirigenza dell’AFL‑CIO ha finora solo avanzato lamentele. Presentano petizioni ai governi capitalisti che assicurino l’aumento delle produzioni come mezzo per mitigare i danni causati dalla pandemia. Ciò è ridicolo quanto il governo che mostra sperare che le imprese capitaliste si impegnino in una comune azione preventiva. Appellandosi ad illusori “interessi comuni” che le imprese capitaliste e la classe dominante avrebbero con la classe operaia, i capi sindacali dell’AFL‑CIO dimostrano di voler mantenere solo buoni rapporti con la classe padronale. E lo fanno a spese della classe operaia americana, sia dei loro iscritti sia di tutti gli altri.

Ma, mentre i dirigenti del sindacato restano fermi, la classe operaia in tutto il paese colpito dall’epidemia comincia a muoversi. Gli operatori sanitari di New Orleans, che devono lavorare in condizioni estremamente pericolose durante la crisi sanitaria, hanno iniziato a chiedere il necessario sostegno materiale che i sindacati non sono riusciti a rivendicare. A New York, dove ancora il sindaco teneva aperte le scuole pubbliche, gli insegnanti hanno chiesto la loro chiusura. E dove il governo capitalista si rifiuta di alleviare le carenze materiali causate dal panico, la classe operaia si sostiene a vicenda con le risorse di cui dispone. Le richieste della classe operaia negli Stati Uniti sono le stesse dei lavoratori in tutto il pianeta: un sostegno totale e immediato durante il corso della pandemia.

Solo la classe operaia unita è in grado di avanzare le proprie ragioni di fronte all’attività insensata dei governi capitalisti al potere. Unendosi alla classe operaia europea e canadese, già in sciopero, e in solidarietà con i lavoratori sofferenti dell’Asia orientale, la classe operaia americana può esigere l’indispensabile assistenza medica e una pausa dal lavoro durante la pandemia.

Attraverso questo fronte di classe così unito, la classe operaia internazionale può cambiare la società e dare priorità ai bisogni umani, in questa crisi come nel futuro. Questa unione di classe, in coordinamento con il Partito Comunista Internazionale, può resistere alle costrizioni del mercato per la continua redditività delle imprese, che saranno sempre sorde ad ogni sofferenza dei lavoratori. Mentre la borghesia si ingegna con tutte le sue energie a tamponare le falle del suo contraddittorio sistema, solo l’unione della classe operaia può portare alla sua emancipazione.

 

 

 

 


Prato, 18 gennaio
Per un Fronte Unico Sindacale di Classe
Contro padroni, Stato borghese e sindacalismo di regime

Qui di seguito pubblichiamo il volantino che abbiamo distribuito alla manifestazione di sabato 18 gennaio a Prato, anche tradotto in lingua inglese.

La mobilitazione, promossa dal SI Cobas, è riuscita, con circa 2 mila manifestanti, per la gran parte lavoratori. La cittadinanza di Prato era sicuramente anni che non assisteva ad un simile corteo operaio. Né mai per iniziativa di un sindacato di base.

Questo deve aver preoccupato non poco la piccola borghesia, i padroni e le autorità locali. Altrettanto certamente ha dato forza e coraggio agli operai che si sono inquadrati col SI Cobas e ai tanti che ancora non hanno avuto il coraggio di farlo e di lottare, per il timore delle ritorsioni aziendali, in questo importante distretto tessile.

Altro dato positivo è stata l’adesione di quasi tutto l’arco del sindacalismo conflittuale, sia pure per lo più con ristrette rappresentanze. Oltre ai lavoratori del SI Cobas, che costituivano la maggioranza del corteo, era presente l’opposizione Cgil, con gruppi di fabbrica quali la Gkn di Firenze e la Piaggio di Pontedera, la Confederazione Cobas, con gruppi più ridotti la Cub e l’Usb. L’Adl Cobas, che agisce in sintonia col SI Cobas, è stato l’unico in grado di costituire uno uno spezzone del corteo. Era presente anche il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA), con uno striscione, una ventina di aderenti e un volantino distribuito.

Insomma, si è trattato di un piccolo esempio d’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, parola d’ordine che il nostro partito agita in seno al movimento sindacale e a cui è ispirato il Coordinamento autoconvocato (CLA). Ma la strada affinché esso si imponga è ancora lunga e ha bisogno che simili episodi di lotta si moltiplichino e non restino episodici. Nel contempo l’attività del Coordinamento deve proseguire nella consapevolezza di quanto la strada imboccata sia giusta, per quanto lunga e in salita. Le scorciatoie sono dell’opportunismo politico e sindacale.


* * *

Le multe per “blocco stradale” inflitte ai lavoratori della lavanderia Superlativa di Prato e alle studentesse solidali, per un picchetto sgomberato con la forza dalla polizia, rientrano nel quadro generale della repressione padronale volta ad impedire il ritorno alla lotta della classe operaia.

Sono centinaia i fogli di via, le sanzioni, le denunce. Solo nei giorni scorsi a Genova sono state comminate 19 sanzioni di circa 5000 euro con l’accusa di “violenza privata” e a Desenzano sul Garda (Brescia) denunce e divieti di dimora con l’accusa di “estorsione”, sempre per aver scioperato e organizzato picchetti.

Laddove il SI Cobas si insedia in un posto di lavoro, inizia la repressione aziendale con le minacce, le discriminazioni e i licenziamenti. Se non basta, al singolo imprenditore viene in soccorso lo Stato che invia polizia e carabinieri a sgomberare i picchetti, a manganellate e coi gas se serve, come accaduto in decine di episodi. Se nemmeno questo ferma la lotta, allora subentra la magistratura, che si avvale degli strumenti legali che il regime politico borghese – in perfetta continuità al di sopra dei cambi di casacca, democratica o fascista, e per mano dei suoi governi d’ogni colore – ha prodotto a tutela delle aziende e contro la lotta dei lavoratori, ultimi i cosiddetti “decreti sicurezza”.

Polizia, magistratura e governo sono tutti ingranaggi della macchina statale borghese il cui scopo è mantenere oppressa e sfruttata la classe lavoratrice.

La repressione padronale oggi si accanisce in primo luogo contro il SI Cobas perché questo sindacato ha organizzato la lotta dei settori operai più sfruttati e combattivi in questi ultimi anni. Serve a impedire che queste lotte e questo sindacalismo contagino il resto della classe lavoratrice che per ora in larga parte resta passiva, vittima dell’individualismo, della rassegnazione, della sfiducia nell’azione collettiva e nel sindacato, condizione provocata da decenni di sindacalismo collaborazionista di Cgil, Cisl e Uil, che sta conducendo i lavoratori di sconfitta in sconfitta a perdere una dopo l’altra tutte le conquiste fatte con dure lotte nei tre decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.

Ma la repressione colpisce sempre più frequentemente anche tanti militanti del resto del sindacalismo conflittuale e singoli lavoratori combattivi in posti di lavoro dove la minaccia delle ritorsioni aziendali da un lato e del sindacalismo collaborazionista dall’altro impediscono una reale solidarietà fra i compagni di lavoro e quindi la possibilità di chiamare gli altri lavoratori alla lotta in loro difesa.

Per spezzare questa catena oppressiva composta da aziende, Stato borghese e sindacalismo di regime occorre perseguire la strada dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, cioè dei sindacati di base e della opposizione in Cgil.

Questo è quanto è stato fatto oggi a Prato, dove alla manifestazione odierna hanno portato il loro sostegno la gran parte delle federazioni locali del sindacalismo di base, l’opposizione in Cgil, diverse Rsu e collettivi di fabbrica e il Coordinamento Lavoratori/trici per l’Unità della Classe, quest’ultimo costituitosi appositamente con lo scopo di coordinare gli sforzi di quei militanti che vogliono battersi all’interno delle organizzazioni del sindacalismo conflittuale per l’unità d’azione.

Occorre battersi affinché quello di oggi non resti un episodio isolato ma diventi l’obiettivo a cui uniformare in modo costante e sempre più completo l’azione dei sindacati di base e della opposizione in Cgil.

Solo la formazione di Fronte Unico Sindacale di Classe sarà in grado da un lato di offrire ai lavoratori una alternativa credibile e forte ai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e dall’altro di combattere più agevolmente l’opportunismo sindacale dominante all’interno del sindacalismo conflittuale, che è la causa principale delle sue divisioni interne.

Sono invece da rigettare i fronti misti fra sindacati e partiti perché, a dispetto dei proclami in favore dell’unità d’azione dei lavoratori, non possono che generare una pluralità di fronti fra partiti, tutte ovviamente in concorrenza reciproca, ciascuno con la sua parte di organismi o correnti sindacali sotto suo controllo. Sono perciò operazioni che vanno nella direzione opposta a quella di stabilire una organica e costante unità d’azione del sindacalismo di classe.

Battersi oggi per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, con l’obiettivo della costituzione di un Fronte Unico Sindacale di Classe, nella prospettiva della formazione di un unico Sindacato di Classe, è la strada lungo cui poter riportare la classe lavoratrice alla lotta nelle condizioni di forza più favorevoli, sola base materiale che permetterà lo spostarsi di una parte sufficientemente robusta di essa su posizioni rivoluzionarie, collegandosi all’autentico partito comunista disposto a dirigerla alla conquista del potere politico.


(In English: For a Single Class Union Front Against Bosses, Bourgeois State and Regime Unionism)
 
 
 
 
 
 
 
 


Genova, lunedì 17 febbraio
Per l’antimilitarismo e l’internazionalismo proletari

A Genova, martedì 17 febbraio un gruppo di portuali da tempo denominatosi Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali ha promosso una iniziativa antimilitarista volta a impedire l’attracco di una nave saudita, recante un carico di materiale bellico. L’iniziativa non era la prima di questo genere, già l’estate precedente si era svolta con lo stesso obiettivo. Come la volta precedente, azioni analoghe per impedire l’attracco e il carico della nave erano state intraprese in altri porti europei. Questa volta però la Filt Cgil, di cui diversi membri del CALP sono delegati, non ha proclamato lo sciopero presso il terminal dove era previsto l’ormeggio. Questo con la ragione che il materiale caricato in questa occasione sarebbero stati veicoli civili. Sicché, a differenza della volta passata, la nave ha potuto ormeggiare, caricare e ripartire.

Al presidio presso uno dei varchi portuali i nostri compagni hanno diffuso il volantino qui di seguito. Erano presenti un centinaio fra lavoratori, militanti sindacali e politici. Il gruppo sindacale più numeroso ed organizzato è stato quello del S.I. Cobas genovese, ben visibile con le sue bandiere. Poi vi erano alcuni militanti della opposizione Cgil, il cui esecutivo nazionale aveva pubblicato un comunicato di sostegno all’iniziativa, e pochissimi dell’Usb, nonostante la federazione genovese avesse invitato a parteciparvi. Assenti la Cub e la Confederazione Cobas.

L’iniziativa è positiva perché promossa da lavoratori, torna ad agitare fra gli operai l’antimilitarismo e, in una sorta di coordinamento con altri portuali europei, è un abbozzo di azione operaia internazionale.
Naturalmente i vari indirizzi politici non comunisti presenti nel movimento sindacale e anche all’interno del gruppo promotore dell’iniziativa ne compromettono in parte più o meno grande, a seconda delle circostanze, il carattere classista.

Si allontanano dagli interessi immediati e storici della classe lavoratrice quando cercano, e trovano, piuttosto l’appoggio di partiti e associazioni pacifiste che quello dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale. Vi è poi lo “estremismo riformista”, che crede di poter “chiudere i porti alle armi” e riconvertire l’industria bellica, eludendo la questione del potere politico. Circolano infine le parole d’ordine falsamente rivoluzionarie ed internazionaliste, come quella di “uscire dalla NATO”, abbracciate nella illusione che puntare a “obiettivi politici intermedi” avvicini la rivoluzione, ottenendo invece l’effetto opposto, di sottomettere la classe operaia alle politiche borghesi che la classe dominante alterna nel gioco dei propri interessi imperialistici.


* * *

La pace è impossibile nel capitalismo perché la guerra è un prodotto delle sue leggi economiche irriformabili.

Da un lato la guerra è la prosecuzione sul piano militare della competizione economica che, se in tempi di crescita dell’economia si contiene in un ambito prevalentemente commerciale, in epoca di crisi diviene aspra a tal punto da portare gli Stati, che sono i difensori degli interessi generali di ogni capitalismo nazionale, allo scontro bellico. Avvisaglie di tale epilogo sono il protezionismo, in economia, accompagnato dal nazionalismo – sia di destra che di “sinistra” – in campo politico, già ben presenti oggi.

Ma la guerra è – prima e oltre che un mezzo di spartizione del mercato mondiale fra le borghesie d’ogni paese – la sola soluzione che il capitalismo, nel suo complesso, ha alla devastante crisi della sua economia, causata dalla sovrapproduzione. Con le immani distruzioni di merci già prodotte – infrastrutture, industrie, città e “forza lavoro” – che impediscono un’ulteriore valorizzazione del capitale (volgarmente chiamata “crescita”), la guerra viene a salvare tutti i capitalismi nazionali, vincenti e perdenti, offrendo un bagno di giovinezza a un modo di produzione morente e antistorico.

Il capitalismo offre così al contempo il massimo progresso e la massima barbarie che la storia umana abbia mai sperimentato. Il cosiddetto “miracolo economico” del secondo dopoguerra fu possibile solo in virtù prima delle immani distruzioni e degli oltre 50 milioni di morti della II guerra mondiale – quasi tutti proletari e contadini poveri delle metropoli e delle colonie – e dopo del brutale sfruttamento della classe operaia in nome della “ricostruzione nazionale”.

Fu la guerra mondiale – per ammissione degli stessi economisti borghesi – la soluzione alla crisi economica in cui affondava il capitalismo nella prima metà del Novecento, non le politiche di intervento statale in economia, allora applicate indifferentemente da tutti i regimi borghesi – democratici e nazifascisti – ed oggi invocate dalla sinistra riformista radicale quale alternativa al cosiddetto “neoliberismo” e soluzione alla crisi. Le vie d’uscita nazionali dalla crisi avvicinano la guerra, non il socialismo.

Tutti gli Stati borghesi, anche in tempo di pace, mai smettono di manovrare nella prospettiva dello scontro generale che verrà, consapevoli che ogni posizione persa è concessa al “nemico”. Da qui le centinaia di guerre locali, con milioni di vittime, che mai hanno cessato di caratterizzare la “pace” seguita al secondo conflitto mondiale, condotte aizzando l’odio nazionale, etnico e religioso con massacri terroristici, così come sta accadendo nelle ultime settimane nel nord della Siria, dove lo scontro tra i due imperialismi regionali di Siria e Turchia si sta consumando sulla pelle di più di tre milioni di civili impossibilitati a fuggire.

Come la guerra contemporanea ha una funzione più profonda della spartizione del mercato mondiale, che è quella di salvare l’intero capitalismo dalla sua crisi, così tutte le borghesie nazionali sono accomunate dall’avere un nemico superiore a quello che ciascuna di essa fronteggia militarmente: la classe lavoratrice di tutti i paesi. Ogni borghesia nazionale ha sempre due fronti e due nemici da combattere: uno esterno ed uno interno.

Di fronte all’avvitarsi inevitabile della crisi economica che schiaccia i lavoratori nella miseria, aumentando lo sfruttamento degli occupati e ingigantendo l’esercito dei disoccupati, la guerra è un mezzo per ostacolare la rivolta sociale che, se guidata dal partito comunista, diviene rivoluzione. Una parte della classe operaia è tolta dalle città e condotta al fronte al massacro fratricida contro lavoratori con un’altra divisa. I bombardamenti sulle città decimano ulteriormente la classe lavoratrice e ne riducono la forza.

Questa soluzione è l’unica di cui dispongono i regimi borghesi. Ma è per essi sempre molto rischiosa perché implica l’armamento dei lavoratori. Se durante la guerra scoppiano gli scioperi nelle fabbriche e le rivolte nelle città – come ad esempio in Russia nel 1917, in Germania nel 1918, in Italia nel 1943, in Iraq nel 1991 – il fronte interno può crollare e la ribellione facilmente contagiare l’esercito.

Per questo ai lavoratori d’ogni paese la guerra non può certo essere spiegata da ciascun regime borghese nazionale per le sue autentiche ragioni di vile ordine economico, men che meno come prodotto inevitabile del corso economico dell’intero capitalismo, ma deve essere sempre giustificata come prodotto della volontà di una parte politica e di nazioni particolarmente reazionarie, malvagie, guerrafondaie, che opprimono quel popolo e nazione, così da convincere le masse proletarie a sostenere lo sforzo bellico e a non ribellarsi alle tremende condizioni di vita che esso comporta.

A questo scopo per la borghesia sono fondamentali i falsi partiti operai che, all’interno di ciascun paese sono sempre pronti alla politica del “meno peggio” – che prepara puntualmente “il peggio” – ad allestire “fronti unici politici” in difesa della democrazia e “contro le destre”, e mai a lottare contro tutti i partiti borghesi – di destra e di sinistra – per la conquista rivoluzionaria del potere, così sul piano internazionale e dinanzi ai pericoli di guerra individuano sempre un’alleanza di Stati capitalisti “meno peggio” per la quale portare i lavoratori a farsi macellare.

GUERRA ALLA GUERRA non è uno slogan di generica opposizione alla violenza militarista del capitalismo. È l’indicazione pratica con cui il partito bolscevico in Russia, gli spartachisti in Germania, la Sinistra Comunista in Italia, indicarono ai lavoratori nella prima guerra mondiale di “trasformare la guerra fra Stati in guerra fra le classi”, di applicare il “disfattismo rivoluzionario” contro il proprio paese in guerra, di non sparare contro i fratelli di classe degli altri paesi ma voltare il fucile di 180° per abbattere il regime della propria classe dominante nazionale.

Il partito bolscevico, in virtù di questo indirizzo, fu l’unico nella storia del capitalismo a fermare la guerra imperialista – mai ci sono riusciti i belati pacifisti della sinistra borghese – e lo fece al prezzo di enormi perdite territoriali per la Russia, seguendo quindi una condotta profondamente antinazionale, in quanto l’obiettivo era la rivoluzione proletaria internazionale non la lotta per “difendere il proprio paese”.

L’incapacità a riconoscere la controrivoluzione staliniana e la natura capitalista dell’URSS ha portato i falsi partiti operai a rinnegare questo indirizzo, a schierare nella seconda guerra mondiale il proletariato su uno dei due fronti imperialisti, così come aveva fatto la socialdemocrazia nella prima, e – per fare esempi più recenti – a sostenere regimi borghesi oppressori e massacratori di operai e contadini poveri come quello di Serbia, Iraq, Siria, Nicaragua, Venezuela o quello di Mosca nella guerra nel Donbass (Ucraina).

L’incapacità di comprendere come il mondo contemporaneo sia ormai da decenni interamente capitalista e come dunque la lotta contro l’imperialismo e contro il fascismo non possa significare che lotta contro il capitalismo nel suo insieme, porta questi falsi partiti operai a cadere nelle trappole ideologiche con cui le borghesie nazionali cercano di condurre i lavoratori alla guerra. Solo la classe lavoratrice ha la forza di impedire o fermare la guerra, colpendo con gli scioperi in fabbrica l’economia della nazione in guerra e al fronte con lo sciopero militare e fraternizzando coi lavoratori degli altri paesi, trasmettendo la rivolta sociale al di sopra dei confini nazionali.

* * *

Per questo l’iniziativa dei lavoratori portuali di Genova aderenti al Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali è importante:
      – perché torna ad agitare l’antimilitarismo non come generico pacifismo da propugnare con manifestazioni interclassiste ma come un’azione conseguente fra i lavoratori e nel movimento sindacale;
      – perché avviene a seguito di analoghe ripetute azioni in altri porti d’Europa e compie quindi un primo passo pratico di azione internazionale dei lavoratori.

Occorre battersi affinché tutto il sindacalismo conflittuale – cioè i sindacati di base e l’opposizione in Cgil – dia un sostegno unitario e pratico a queste iniziative, sia partecipando ai presidi ed ai picchetti, sia proclamando lo sciopero.

Occorre lottare affinché siano smascherati e sconfitti nel movimento operaio quei partiti opportunisti che piegano l’antimilitarismo e l’internazionalismo proletari ad obiettivi politici parziali, del tutto compatibili con quelli di frazioni della borghesia nazionale ed internazionale. Fra questi l’uscita dalla NATO e la chiusura delle sue basi in Italia, che, se sono chiaramente impliciti nella conquista del potere politico dal parte della classe lavoratrice, quando, anteposti a questo, che è l’unico obiettivo politico rivoluzionario, non fanno che prestare il fianco a quella parte della borghesia nazionale desiderosa di abbandonare la sudditanza all’imperialismo americano per passare a quella agli imperialismi russo e, soprattutto, cinese, col disastroso risultato di favorire lo schieramento dei lavoratori su uno dei fronti imperialisti tradendo una volta di più l’internazionalismo.


     Per l’unità internazionale dei lavoratori!
     Contro ogni fronte della guerra imperialista!
     Contro ogni missione militare della propria borghesia!
 
 
 
 
 
 
 


Con i lavoratori della Peroni
Unire ed estendere le lotte

Alla fabbrica di birra Peroni di Roma lavorano in sub‑appalto presso una cooperativa (la Master Jobs) una quarantina di facchini, di origine eritrea e somala. Questi lavoratori, dopo circa un decennio di lavoro sottopagato e di grande sfruttamento, hanno aderito al S.I.Cobas.

Dopo una prima fase di lotta, conclusasi con un accordo sindacale migliorativo, l’azienda ha disatteso gli impegni, minacciando un licenziamento di massa. Quindi i facchini hanno organizzato uno sciopero a oltranza, arrivato al quarto giorno consecutivo il 29 febbraio.

In questo giorno, nel tentativo di raccogliere sostegno per lo sciopero, il S.I.Cobas ha organizzato una manifestazione nel quartiere Collatino, che si è concluso davanti ai cancelli della fabbrica. Presenti circa 100 lavoratori, una delegazione del Movimento di lotta per la Casa con una ventina di persone ed un’altra ventina di solidali.

I nostri compagni vi hanno distribuito il volantino qui di seguito e diffuso il nostro giornale.

Durante il corteo ha preso la parola un vecchio operaio della Peroni che ha ricordato come agli inizi anni Novanta il consiglio di fabbrica fece una lotta dura per opporsi al peggioramento delle condizioni lavorative e salariali degli operai delle ditte esterne. Ha anche ricordato con l’occasione un operaio manutentore, di una ditta esterna, morto sul lavoro. Il discorso è stato molto applaudito.

Complessivamente si è trattato di una iniziativa riuscita. I lavoratori, incoraggiati dal sostegno ricevuto, hanno conseguito una vittoria dopo ben 15 giorni consecutivi di sciopero. La Peroni ha ritirato la richiesta di licenziamenti e la turnistica è stata organizzata accogliendo le richieste del sindacato. Sia di esempio ai lavoratori romani questa lotta esemplare!

* * *
Lavoratori, compagni,

lo sciopero dei lavoratori della Peroni e la manifestazione di sostegno alla loro lotta sono un momento importante per il proletariato romano. Con questa manifestazione molti lavoratori di altri stabilimenti e di altre aziende stanno dando testimonianza agli operai in sciopero che il loro coraggio e la loro abnegazione stanno portando i primi frutti.

Questo sciopero è un esempio luminoso perché esprime la capacità dei lavoratori di reagire a una condizione di precarietà e di arbitrio contrattuale dimostrando che rifiutare ritmi e condizioni di sfruttamento bestiale è un buon inizio e che alzare la testa è possibile.


Lavoratori, compagni,

i profitti in costante crescita di un’azienda che quest’anno si appresta a investire 72 milioni di euro in Italia sono il prodotto della vostra fatica e delle dure condizioni di vita alle quali siete condannati da questo regime sociale infame. Ogni volta che un’azienda chiede sacrifici col pretesto di dovere fare fronte alla concorrenza esterna, pretende da voi altri sacrifici perché sa di potere fare assegnamento sulla divisione in seno alla classe operaia, perché sa che esiste una linea di separazione invisibile che divide voi dai lavoratori delle imprese della concorrenza.

L’unico modo per rifiutare altri attacchi alle vostre condizioni di vita e di lavoro è quello di valicare queste linee di separazione che dividono i lavoratori per aziende e per settori della produzione. Tutta la ricchezza di questa società viene prodotta da una sola classe internazionale.


Lavoratori, compagni,

in questa vertenza acquista un’importanza vitale lo strumento di lotta della cassa di resistenza. In questo senso va salutata positivamente l’iniziativa del SI Cobas di istituirne una per dare la possibilità ai lavoratori della logistica della Peroni di proseguire nello sciopero fino al raggiungimento dei loro obiettivi economici resistendo un minuto in più del padrone. La pratica di raccogliere i soldi fra i lavoratori di tutti i magazzini è anche un mezzo per rafforzare la solidarietà all’interno della classe operaia che così facendo sperimenta sul campo di lotta le straordinarie potenzialità della sua forza.


Lavoratori, compagni,

oggi la borghesia internazionale alle prese con la crisi del suo modo di produzione sviluppa lotte intestine alla sua stessa classe e le guerre e le tensioni fra Stati e alleanze imperialistiche ne sono la prova tangibile. Fazioni del grande capitale e gli Stati al suo servizio esasperano la contesa per accaparrarsi la ricchezza prodotta dalla classe operaia, ma la stagnazione degli investimenti produttivi, indotta dalla crisi di sovrapproduzione è lì a dimostrare come sia sempre crescente il rapporto fra la massa crescente dei capitali in cerca di una valorizzazione e la massa del plusvalore estratto dal sudore e dal sangue dei proletari il cui incremento è meno rapido. Per questo la Santa Alleanza del capitale internazionale preme l’acceleratore sull’intensificazione dello sfruttamento operaio.

Ma i proletari devono essere consapevoli che il meccanismo che presiede al funzionamento dell’economia capitalistiche non dipende da eterne e immutabili leggi di natura: spogliato del suo mascheramento il capitale è nient’altro che un rapporto fra uomini. Per questo dipende soltanto dai rapporti di forza fra le classi se il proletariato attraverso la sua unità e la sua lotta riuscirà a rovesciare la condizione di soggezione all’avida borghesia interessata alla sopravvivenza di questo modo di produzione infame e distruttivo.

Per fare questo è necessario che il proletariato si doti di un sindacato di classe che abbracci tutte le categorie dei lavoratori e unifichi le lotte su una scala sempre più ampia unificando i lavoratori di ogni paese

Il sindacato di classe verrà riconosciuto da settori sempre più ampi del proletariato e lo sviluppo del Partito Comunista Internazionale su scala mondiale sono i presupposti indispensabili per portare avanti oggi le lotte per difendere gli interessi economici dei lavoratori e domani per rovesciare su scala mondiale l’ignobile regime de capitale.  

 

 

 

 

 

 

 


Il movimento contro la riforma delle pensioni in Francia

Salutiamo il coraggio e la determinazione dei lavoratori dei trasporti in sciopero per 50 giorni, dal 5 dicembre al 20 gennaio! Grazie a loro il progetto di riforma delle pensioni, presentato dal governo borghese di Parigi come una “riforma progressista”, è ora da tutti denunciato, persino dagli organi di informazione, come un pesante peggioramento del sistema attuale e un duro attacco ai lavoratori.

Il governo ha mostrato il suo vero volto, dispiegando una repressione feroce, poliziesca e giudiziaria: difende solo una classe, quella della borghesia industriale, finanziaria e fondiaria che vive dello sfruttamento dei lavoratori.


La rapina continua

Il progetto di riforma, abolendo i diversi “regimi speciali” dei lavori più gravosi – più favorevoli – e introducendo un’età cosiddetta “pivot” o di “equilibrio finanziario” di 64 anni, con una penale a carico di chi vuole andare in pensione prima, innalza l’età pensionabile e garantisce un risparmio alla casse statali. Questo pur ammettendo che l’aspettativa di vita di chi è impiegato nei lavori usuranti è più bassa e che la disoccupazione colpisce in particolare gli anziani.

Inoltre il progetto di legge prevede di passare per il calcolo dell’assegno, da un sistema basato sugli ultimi 25 anni per il settore privato e sugli ultimi 6 mesi per quello pubblico, a considerare l’intera carriera lavorativa, perciò almeno 43 anni, abbassando sensibilmente gli assegni. Il tutto naturalmente in nome della “uguaglianza”.

I lavoratori nati dopo il 1° gennaio 1975, a partire dal 1° gennaio 2025 passerebbero a un sistema a punti “universale”, con un fondo unico rispetto ai 54 regimi finora esistenti; i nati dopo il 1° gennaio 2004, a partire dal 1° gennaio 2022.

L’assegno verrebbe a dipendere dal valore del “punto”; ma questo è variabile e quindi noto solo al momento in cui il lavoratore va in pensione.

In tal modo il governo afferma di poter realizzare “risparmi” – ovvio, per il capitale nazionale e sulla pelle dei lavoratori – di 12 miliardi di euro entro il 2027 e di limitare la spesa pensionistica al 13% del PIL.

In realtà il deficit del sistema è dovuto principalmente a decisioni dei governi precedenti, come la riduzione dei contributi a carico dei padroni, la riduzione dei dipendenti pubblici, l’esonero dalla contribuzione per i borghesi che ricevono “stipendi” superiori ai 10 mila euro mensili.

Riducendo l’importo medio delle pensioni il governo incoraggia i fondi pensionistici privati, come ad esempio il fondo americano Black Rock. Il “Piano d’azione per la crescita e la trasformazione delle imprese”, approvata nella primavera del 2019, prevedeva già agevolazioni fiscali per questo tipo di investimenti.


Il contesto delle lotte sociali

Dal 1995 una serie di mobilitazioni si sono opposte ai progetti di riforma del sistema pensionistico dei vari governi, la maggior parte dei quali però non è riuscita ad impedirne l’attuazione: nel 2003 e nel 2010, delle riforme del Codice del lavoro nel 2016‑2017, della riforma delle ferrovie nel 2018.

Dal 2016, con la lotta contro la legge El Khomry, i conflitti sociali non sono quasi mai cessati, con proteste sia di categoria sia interclassiste – come il movimento dei Gilet Gialli – che hanno fronteggiato i tagli alla spesa sociale.

Il movimento attuale inoltre si svolge sullo sfondo della crisi economica globale e di una serie di movimenti e rivolte popolari in un numero crescente di paesi (Cile, Ecuador, Libano, Iraq, Iran, Algeria, Hong Kong).

L’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori in tutto il mondo è iniziato a cavallo fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Per ciò che riguarda il sistema previdenziale però il regime borghese francese si trova in ritardo rispetto ad altri capitalismi nazionali, ad esempio a quello italiano. Il governo Macron sta cercando di recuperare il tempo perduto.

Il movimento si è sviluppato sulla scia di quello dei Gilet Gialli – costituito sia da ceti medi impoveriti sia da strati di lavoratori – disillusi dai partiti politici borghesi e dai sindacati di regime.

Questi ultimi si guardarono bene, quando il movimento dei Gilet Gialli dopo alcuni mesi aveva raggiunto il suo massimo vigore, dall’approfittarne per chiamare la classe operaia alla lotta per i suoi obiettivi. Hanno cioè aiutato la borghesia ad evitare che quel movimento interclassista desse il via alla lotta della classe salariata (“In Francia: la grande paura è che si muova la classe operaia”, “il Partito Comunista” n. 392 novembre-dicembre 2018).

Poi, quando il movimento dei Gilet Gialli ha iniziato a declinare, la dirigenza della CGT ha cercato di utilizzarlo per i suoi fini, cioè per «riaprire una trattativa sulla “concertazione” che il governo Macron ha interrotto [e] dimostrare che i sindacati collaborazionisti sono indispensabili per mantenere la pace sociale». (“Gilet Gialli. La rumorosa impotenza della piccola borghesia”, “il Partito Comunista” n. 394 marzo-aprile 2019). Concludevamo: «In assenza di una ripresa in grande della lotta operaia, forte ed autorevole nelle sue organizzazioni economiche e politiche, o i Gilet Gialli sono destinati all’esaurimento o, peggio, a finire nella politica parlamentaristica e fagocitati dalla reazione, di destra come di “sinistra”».

Il movimento contro la riforma delle pensioni ha potuto giovarsi del radicalismo di quella parte del movimento dei Gilet Gialli che ha riconosciuto le rivendicazioni dei lavoratori come proprie.

Infine, fra i movimenti di lotta che hanno preceduto e preparato quello di dicembre-gennaio, vanno ricordati gli scioperi dei ferrovieri della SNCF, le ferrovie dello Stato, contro la ristrutturazione in corso della società, la “privatizzazione”, che trasferisce parte dell’esercizio a ditte in appalto. I sindacati della SNCF nel 2018 hanno proclamato una serie di scioperi di alcune giornate consecutive ogni mese – una “collana di perle” da cui la formula “grève péerle” – che si sono però dimostrati totalmente inefficaci.


I sindacati in Francia

Il panorama sindacale francese è variegato e complesso, più di quello della vicina Germania, ad esempio, ma meno di quello italiano, in ragione della limitatezza del movimento sindacale fuori e contro il sindacalismo di regime, che in Italia ha dato luogo al frammentato campo del sindacalismo di base.

Il tasso di sindacalizzazione è notoriamente basso in Francia: dal 30% della popolazione attiva nel 1950, è passato al 25% negli anni Settanta ed oggi è compreso fra il 7% e l’11%.


a) LE MAGGIORI CONFEDERAZIONI

La “rappresentatività” dei sindacati si misura con le elezioni di categoria. Il tasso di astensione è elevato, circa il 50%.

Va considerato che in Francia il sistema con cui si esplica la cosiddetta “concertazione” – cioè la collaborazione di classe fra sindacati di regime, organizzazioni padronali e istituzioni borghesi – offre ai primi generosi finanziamenti, sì che meno dipendono dalle tessere e dalle quote dei lavoratori (si veda il nostro articolo dell’aprile 2012 “Les centrales syndicales françaises et la collaboration de classe sous les feux des projecteurs”).

Nelle elezioni del 2017 i risultati della rappresentatività sindacale a livello nazionale e confederale sono stati: 26,4% per la CFDT; 24,8% per la CGT; 15,6% per Force Ouvrière; 10,7% per CFE‑CGC (Confédération Française de l’Encadrement - Confédération Générale des Cadres); 9,5% per la CFTC; 5,3% per l’UNSA; 3,5% per Solidaires; 4,0% per le altre organizzazioni.

Per decreto interministeriale, le confederazioni sono considerate rappresentative se hanno ricevuto almeno l’8% dei voti espressi nelle elezioni nazionali intercategoriali.

CGT e FO sono dipinte dalla stampa borghese, di destra e di sinistra, “radicali”, mentre CFDT, CFTC e CFE‑CGC “riformisti”. In realtà le dirigenze sono tutte collaborazioniste, quelle dei secondi in modo aperto e dichiarato, le prime in modo dissimulato.

Tutte queste confederazioni sono affiliate sul piano internazionale alla CES, la Confederazione Sindacale Europea, legata alla borghese Unione Europea e di pura vocazione collaborazionista.

Le altre organizzazioni sindacali hanno diritti di rappresentatività più limitati e sono considerate rappresentative in un settore se raggiungono la soglia dell’8%. È il caso dell’UNSA, della Union Syndicales Solidaires, della FSU (Fédération Syndicale Unitaire), della CNT (Confédération Nationale du Travail) e della CAT (Confédération Autonome du Travail).

La CFDT è rappresentativa in tutte le aziende con più di 50.000 dipendenti, così come la CGT (tranne che negli istituti scolastici privati cattolici).

Le elezioni nel pubblico impiego di fine 2018 hanno registrato un tasso di partecipazione del 50%, il 3% in meno rispetto al 2014. La CGT ha ricevuto il 21% delle preferenze, la CFDT il 19%, FO il 18%, l’UNSA l’11,2%, la FSU l’8,6%, Solidaires il 6,4%.

Nel settore privato le ultime elezioni sono state nel 2017: la CFDT è risultata il primo sindacato con con il 26%, seguita dalla CGT col 24% e da FO col 15%.

La CGT rimane ancora il primo sindacato nel pubblico impiego ma il suo declino ha permesso alla CFDT di passare al primo posto a livello confederale.

La CFE‑CGC, la confederazione francese del personale dirigente, è stata fondata nel 1944. Apertamente riformista, a causa dell’erosione del tenore di vita delle classi medie è divenuta moderatamente più radicale e nel movimento di dicembre-gennaio ha seduto per la prima volta nell’intersindacale accanto alla CGT e a FO.

La CFTC, la Confederazione Francese dei Lavoratori Cristiani, è stata fondata nel 1919 ed oggi dichiara 135.000 membri.


La Confédération Française Démocratique du Travail (CFDT)

La CFDT, la Confederazione Democratica Francese del Lavoro, ebbe origine nel 1964 da una scissione maggioritaria dalla CFTC, per “deconfessionalizzare” il sindacato. Negli anni Ottanta, a seguito dello spostarsi verso l’aperto collaborazionismo della dirigenza e della maggioranza dei quadri, sono stati espulsi dal sindacato i gruppi più radicali. Le prime espulsioni si sono verificate già nel 1978, con l’estromissione della sezione PTT Lyon‑station; nel 1980 è toccato alla sezione dell’acciaieria Usinor-Dunkerque, durante le lotte contro i licenziamenti nella ristrutturazione della siderurgia; nel 1985 è stata eliminata la sezione sindacale alla Air Inter.

Il grande sciopero dei ferrovieri del 1986 vide l’importante novità di un Coordinamento nazionale dei lavoratori che diresse la lotta in modo indipendente dalle dirigenze dei sindacati di regime: «”L’Unità” definisce questo sciopero “qualcosa di nuovo e preoccupante sia per il governo che per i sindacati”. Ci si trova infatti di fronte a uno sciopero a scala nazionale a oltranza, dirige l’agitazione un Coordinamento Nazionale con il compito di trattare con la direzione delle ferrovie e con i sindacati» (“Lo sciopero ad oltranza dei ferrovieri francesi un passo avanti per tutta la classe operaia”, Il Partito Comunista n. 149, gennaio 1987).

Questo fenomeno si è ripetuto nelle lotte dei lavoratori delle scuole primarie nel 1987, poi dei postini e degli infermieri nel 1988.

Nel novembre 1988 la CFDT‑Sanità dell’area metropolitana parigina venne prima sospesa poi espulsa e diede vita al “Coordonner-Rassembler-Construire - CRC Santé”, ed in seguito è entrata a far parte della SUD.

Oggi la CFDT è, come detto, un sindacato apertamente collaborazionista e anche molto centralizzato, carattere che la differenzia dall’odierna CGT.


La Confédération Générale du Travail (CGT)

La CGT, Confederazione Generale del Lavoro, è stata creata nel 1895. Nel secondo dopoguerra era controllata dal Partito Comunista Francese e aderiva alla Federazione Sindacale Mondiale, legata al falso comunismo di Mosca (si legga «L’ “internazionalismo” anti‑operaio della Federazione Sindacale Mondiale», “il Partito Comunista” n. 394).

Una minoranza contraria alla sottomissione al PCF si staccò nel 1947 per fondare la confederazione CGT‑Force Ouvrière (CGT‑FO). Negli anni Novanta, con la disintegrazione dell’URSS, la CGT ha cambiato rotta: autonomia dal PCF e un atteggiamento più conciliante nei confronti del padronato pubblico. Nel 1995 ha lasciato la FSM per aderire alla CES. Tuttavia le sue federazioni di categoria dell’industria chimica e la agroalimentare aderiscono ancora alla FSM così come diverse strutture locali del sindacato come la CGT‑Energia a Parigi e i CGT‑Ferrovieri a Versailles.

La CGT, che dal 1995 non ha più chiamato a scioperi nazionali, segue una condotta che potremmo definire di “inseguimento”: le decisioni sono prese a livello territoriale e di fabbrica; la direzione nazionale non si oppone, ma nemmeno coordina ed unisce le lotte, il che impedisce una reale unificazione e centralizzazione degli scioperi. Le lotte rimangono quindi disperse e scoordinate; ogni giorno lo sciopero si rinnova impresa per impresa. Questo porta quando il movimento è ascendente a ridurre il impatto, quando discendente a una ritirata disordinata.

Dal 2015 la CGT, assecondando le federazioni più combattive, agroalimentare e chimica, ha assunto un linguaggio più radicale, ma ha mantenuto sostanzialmente una condotta conciliante col governo ed il padronato. La CGT firma il 70% degli accordi aziendali, la maggior parte dei quali peggiorativi delle condizioni normative e salariali.

Dal 1945 agli anni Novanta il PCF ha dominato questo sindacato e ancora oggi ha una influenza nella sua dirigenza, ma negli ultimi anni diverse correnti trotskiste sono penetrate nelle sezioni territoriali e aziendali, fattore che, entro certi limiti, ha contribuito ad una radicalizzazione della base del sindacato.

Esistono poi altre correnti di opposizione all’interno della CGT.

La C‑L‑CGT (Continuer la CGT) – “per un sindacalismo di lotta di classe e di massa” – è stata fondata nel giugno 1995 come corrente interna ed esterna alla CGT durante un’Assemblea Generale dei militanti CGT a Parigi, insieme con sindacalisti della FSU (insegnanti), per combattere il collaborazionismo della CGT e la fuga dei quadri verso altri sindacati quali la SUD. Aderisce alla FSM e ha costituito una associazione denominata “Les amis de la C‑L‑CGT” che permette l’adesione di militanti sindacali non iscritti alla CGT.

Un’altra corrente di opposizione interna alla CGT è il “Front Syndical de Classe” (FSC). Si tratta sostanzialmente di una frazione sindacale di partito. I suoi militanti provengono da una corrente interna al PCF nata nel 2004 per opporsi al traghettamento di quel partito verso l’aperto riformismo, libero dagli ormai antiquati orpelli del finto comunismo staliniano. Il FSC è stato creato l’anno dopo da attivisti della CGT e della FSU. Come la C‑L‑CGT sostiene l’adesione alla FSM. Ha membri in 28 dipartimenti e in varie categorie: metallurgici, energia, trasporti, sanità, poste. In coerenza con la corrente politica di cui è filiazione, il FSC inquadra le rivendicazioni sindacali in una ideologia nazionalista, fatta di slogan quali il “rilancio della produzione in Francia” e la difesa del paese “dall’oligarchia tedesco-americana”. Così parlano i loro omologhi politici e sindacali in Italia, ad esempio i dirigenti dell’Usb, con la sola differenza che additano ai lavoratori l’Unione Europea a “trazione franco-tedesca”.

Infine vi è il Front Social, creato nel maggio 2017, un coordinamento composto da sezioni sindacali: 46 della CGT, 39 di SUD e Solidares, una del FSU, 9 della CNT e 3 del UNEF. Ma vi aderiscono anche associazioni non sindacali e di non lavoratori, inquinandone la natura di classe, come collettivi “contro le politiche liberali”.

La CGT ha circa 20.000 sezioni di fabbrica nelle diverse categorie. Il numero degli iscritti – ne dichiara 600.000 – si sta lentamente erodendo, con un declino più marcato nel settore privato.

Di fronte a queste difficoltà, al suo 52° congresso del maggio 2019 la dirigenza nazionale ha dovuto cedere su diversi punti alle opposizioni, dimostrando di non controllare bene la base, ben diversamente di quanto fino agli anni Novanta. Oggi la CGT si presenta come una organizzazione poco centralizzata, dove sovente le sezioni non seguono le decisioni della dirigenza e dove ognuno, al suo livello, può inventare “il proprio modo di essere CGT”. Il ritorno al federalismo, la concessione di larghe autonomie alle sezioni territoriali e aziendali sono un tentativo della dirigenza di rimanere in sella senza perdere porzioni del sindacato in una situazione di patente debolezza.

I capi mascherano questa debolezza dietro una libera scelta di “democrazia sindacale”, lasciare che la base si esprima e decida, ma in realtà non è che di far buon viso a cattivo gioco. Ma così la CGT è riuscita finora a che il movimento, non trovando in essa un ostacolo, come fu invece nella seconda metà degli anni Ottanta, non maturi la necessità di dotarsi di una vera direzione nazionale, che faccia quanto la CGT e l’intersindacale ben si guardano dal fare, cioè estendere, coordinare ed unificare le lotte operaie.


Force Ouvrière (FO)

Force Ouvrière (CGT‑FO) è stata fondata nel 1947 da una scissione della CGT, con il sostegno finanziario dei sindacati americani, dopo i grandi scioperi di quell’anno e la collaborazione del PCF con il governo per sostenere “l’impegno per la ricostruzione e la produzione nazionale”.

Il confronto interimperialista fra USA e URSS si riflesse in molti paesi non solo sul piano partitico ma anche su quello sindacale, ad esempio in Belgio e in Germania. In Italia si ebbe la scissione dalla Cgil che portò alla formazione della Cisl.

Per molti militanti sindacali però – come le federazioni dei lavoratori delle ferrovie, dei minatori, delle PTT – si trattò soprattutto di emanciparsi dall’influenza del partito stalinista. Fra questi erano sia quelli vicini al futuro partito socialista sia parte degli anarco-sindacalisti (che in maggioranza formarono la CNT) e delle correnti trozkiste.

Apertamente collaborazionista fino agli anni Ottanta, da allora FO si è spostata verso una linea più combattiva, in ragione dell’ammissione di elementi anarchici e trotskisti nella sua dirigenza nazionale. Oggi è il terzo sindacato rappresentativo dietro la CFDT e la CGT, con un numero di iscritti stimato fra i 500 e i 600 mila.


b) I SINDACATI NON RAPPRESENTATIVI A LIVELLO NAZIONALE


L’UNSA (Union Nationale des Syndicats Autonomes)

L’UNSA, Unione Nazionale dei Sindacati Autonomi, è stata fondata nel 1993, dalle federazioni nazionali della scuola, dei trasporti e delle ferrovie. Oggi rivendica 200 mila iscritti. Di orientamento apertamente collaborazionista, nella funzione pubblica è il quarto sindacato con l’11% ottenuto nelle elezioni del 2018.

Come vedremo l’UNSA RATP e SNCF, sotto la pressione della loro base, durante il movimento di dicembre-gennaio hanno agito in contrasto con la dirigenza nazionale.


Solidaires - SUD

La Union Syndicale Solidaires (SUD) si costituì nel 1981 col nome di “Groupe des Dix”, da dieci federazioni sindacali autonome di varie categorie: Difesa (creata nel 1947), Trasporti (1954), Macchinisti SNCF (1885), Agricoltura e Industria alimentare (1945), Polizia (1969), Pubblico impiego (1949), Controllori traffico aereo (1965), Giornalisti (1918), Agenzie fiscali (1962).

Divenne Union Syndicale Solidaires – SUD nel 1998. Nel 2004 dichiarava 80 mila iscritti ed oggi quasi 100 mila.

Nel novembre 1988, durante la lotta contro lo smembramento delle PTT, Postes, Télégraphes et Téléphones, a seguito della espulsione di diverse sezioni della regione della Ile de France, quella di Parigi, dalla CFDT, nacque la SUD PTT. Quel movimento di sciopero, che fu chiamato dei “camion gialli”, i furgoni postali usati dagli scioperanti per bloccare i centri di smistamento, seguiva le lotte del biennio 1987‑88 che avevano portato alla formazione di coordinamenti nazionali, autonomi rispetto alle confederazioni collaborazioniste, fra i ferrovieri e gli infermieri.

Nel 1995, durante il movimento di lotta contro la riforma Juppé delle pensioni, altri settori si unirono a Solidaires SUD, lasciando sia la CFDT (SUD Rail) sia FO sia la CGT, portando alla formazione del sindacato nel settore scuola (SUD Éducation), cultura (Sud Culture), auto (Sud Auto), alla Michelin (Sud Chimie Michelin) e in altre aziende.

Anche all’interno di questa confederazione sono attive varie frazioni sindacali di correnti trozkiste che ora fanno parte del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA, Nuovo Partito Anticapitalista).


La FSU (Fédération Syndicale Unitaire)

La FSU, Federazione Sindacale Unitaria, nata nel 1994, è presente del pubblico impiego, composta principalmente da insegnanti oltre che da lavoratori di altri settori come quelli della Agenzie pubbliche per l’impiego, della giustizia, della cultura.

Con 165.000 iscritti, è il quinto sindacato francese dietro CFDT, CGT, FO ed UNSA. Si dichiara sostenitore di un sindacalismo di lotta, pur aderendo sul piano internazionale alla collaborazionista CES. Al suo interno ha diverse tendenze del sindacalismo conflittuale, compresi gli anarco-sindacalisti, ma è particolarmente vicina al PCF.


c) PICCOLI GRUPPI COMBATTIVI ALLA RATP

Ci sono anche altri sindacati più piccoli, alcuni dei quali sono ostili alle dirigenze dei sindacati rappresentativi.

Il Rassemblement Syndical‑RATP (RS) è nato nel 2014, composto principalmente da macchinisti della metropolitana e della RER (“Réseau Express Régional”, il servizio ferroviario dell’area metropolitana di Parigi) e da tranvieri.

Sempre alla RATP c’è il gruppo "la Base", creato nel 2018 e che sostiene di non essere un sindacato ma un movimento di base. Promuove la rottura con i cosiddetti sindacati tradizionali, l’assenza di dirigenza, la democrazia partecipativa dei dipendenti all’interno del movimento, la revocabilità dei responsabili. Si ispira al movimento dei Gilet Gialli a cui è collegato. È formato da circa 200 membri, principalmente nella metro (la linea 5 è la sua roccaforte) e nella RER. È strettamente legato a Rassemblement Syndical e ad un altro gruppo, la CGT frondeurs RATP, che chiama alla formazione di comitati di sciopero.


d) I SINDACATI NELLA SNCF E NELLA RATP

La SNCF è un’azienda statale creata nel 1937 (in Italia le ferrovie furono statalizzate nel 1905) oggi con un capitale per il 55% dello Stato francese.

La costante pressione del padronato a ridurre il costo del lavoro e lo sviluppo tecnico hanno imposto una progressiva riduzione dell’organico: 514.000 nel 1938, 462.000 nel 1947, 303.000 nel 1970, 206.930 nel 1990 e 142.240 nel 2018. Dagli anni Novanta questa riduzione si spiega in buona parte con lo scorporo di gestioni dalla SNCF a numerose società in subappalto che impiegano personale spesso precario.

È il caso di Geodis, creata nel 2008 e principale società di servizi logistici francese. È attiva anche in Italia e nota al movimento sindacale per i vari scioperi organizzati dal SI Cobas nei suoi magazzini all’interporto di Bologna, a Castel San Giovanni (Piacenza) e a Landriano (Pavia). Anche in Francia impiega lavoratori con contratto a tempo indeterminato e altri con contratti temporanei a condizioni di lavoro pessime.

CGT Cheminots e SUD Rail organizzano due terzi dei macchinisti e il 65% del personale viaggiante SNCF. Gli altri sindacati sono la UNSA e la CFDT.

Nel 2018, in occasione delle elezioni di categoria nella SNCF, che hanno avuto un tasso di partecipazione dello 66,7%, la CGT Cheminot ha ottenuto il 34% dei voti fra i macchinisti e il 40% nel personale viaggiante. L’UNSA il 24% dei voti, di cui il 7,5% di macchinisti e controllori. SUD Rail il 17,3%, e rappresenta un terzo dei macchinisti e più del 25% dei controllori. La CFDT il 14,3% dei voti, con il 18% dei macchinisti e il 12% dei controllori. Infine, FO è il 5° sindacato: 7,3% dei voti, con il 10% dei macchinisti. Infine vengono CFE‑CGC col 2,78% e la CFTC con lo 0,03%.

La RATP conta 45.700 dipendenti. Anche questa è un’azienda pubblica, creata nel 1948, che gestisce 16 linee di metropolitana, 8 linee di tram, parte delle linee degli autobus e le linee A e B della RER.

Nelle elezioni sindacali del 2018 – con un’affluenza del 45% a fronte del 65% nel 2014 – l’UNSA RATP ha ottenuto il 30,2% dei voti, seguita dalla CGT RATP, che ha perso il primo posto e ha avuto il 30,1%, dalla CFE‑CGC 10,43%, di cui il 33% fra i quadri, la SUD RATP (espulsa da Solidaires SUD nel 2015) il 9,0%, FO RATP il 6,5%, la CFDT RATP il 3,7% e Solidaires il 3,3%.

I sindacati più collaborazionisti – UNSA e CFE‑CGC – detengono la maggioranza che permette loro di firmare gli accordi aziendali. I tranvieri sono meno sindacalizzati dei conducenti della metro e dei treni della RER ed hanno salari più bassi. Il tasso di sindacalizzazione è di circa il 18‑20% per SNCF e RATP (come detto il tasso di sindacalizzazione in Francia varia fra il 7% e l’11%).


Il “diritto di sciopero” e i servizi minimi

Il “diritto di sciopero” in Francia è sancito dalla Costituzione del 1946: non è imposto un limite di durata ma lo sciopero deve riguardare le condizioni normative e salariali e non questioni politiche. La legge si applica sia al settore privato sia pubblico, ad eccezione di alcune categorie: militari, CRS (“Compagnie républicaine de sécurité”, il corpo antisommossa della polizia) e magistrati.

Nel settore privato non è richiesto alcun preavviso. Nel pubblico impiego il preavviso è di cinque giorni. Per i trasporti pubblici la legge del 21 agosto 2007 ha stabilito che la notifica dello sciopero può essere data solo dopo una trattativa preliminare tra l’azienda e le organizzazioni sindacali rappresentative.

In Francia, il cosiddetto “servizio minimo” esiste da tempo nei settori nucleare, audiovisivo, sanitario e del controllo del traffico aereo, ma non nei trasporti, dove quindi nemmeno esiste la precettazione di una quota di lavoratori per garantirlo. A una simile limitazione della libertà di sciopero i sindacati si oppongono con successo da decenni.

Salta agli occhi il contrasto con la situazione in Italia, dove è stata come noto introdotta nel 1990 una legge, la 146, che non solo impone il servizio minimo ma prevede anche più ampi termini di preavviso e soprattutto una durata dello sciopero che non può superare le 24 ore. Questo fu il risultato inevitabile degli accordi fra i sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) e la parte padronale per limitare lo sciopero, definiti “codici di autoregolamentazione”, e la conseguente pratica iniziata fin dalla fine degli anni Settanta.


Ratp inizia il movimento

Quando a luglio fu annunciato il progetto di riforma delle pensioni, le direzioni nazionali di CGT, Solidaires e FSU annunciarono una giornata d’azione intercategoriale, ma solo per martedì 24 settembre e FO una manifestazione nazionale a Parigi per il 21.

I lavoratori però non attendono i tempi lunghi delle dirigenze collaborazioniste. Già mercoledì 11 settembre si tiene una manifestazione nazionale convocata dal Collettivo Inter-Urgenze (Collectif Inter-Urgences) del settore della sanità.

Poi, venerdì 13, è organizzato uno sciopero di 24 ore contro la riforma delle pensioni – senza il previo accordo delle rispettive dirigenze confederali – da 7 sindacati della RATP: UNSA, CGT, FO, RS‑RATP, CFE‑CGC, SUD e Solidaires.

Lo sciopero ottiene il 90% di adesioni fra tranvieri e macchinisti. Non solo la base dei sindacati ma anche i non sindacalizzati si dimostrano in pieno fermento. Nella giornata si tengono numerose assemblee nelle quali sono molto attivi i gruppi “La Base” e “RS”, che agitano l’indirizzo di estendere ed unire le lotte, trovando ampio consenso fra gli scioperanti.


Sciopero a oltranza

Dopo il grande successo della mobilitazione del 13, spinti dalla base il 20 cinque sindacati della RATP – FO, UNSA, CFE‑CGC, Solidaires e Sud – chiamano ad uno sciopero intercategoriale illimitato, a partire dal 5 dicembre, per il ritiro totale della riforma delle pensioni, senza alcuna mediazione.

La sera della manifestazione del 24 settembre – proclamata da CGT, Solidaires e FSU a luglio e a cui si unisce anche la UNSA Ferrovieri – la federazione SUD Ferrovieri e FO Trasporti si uniscono all’appello dei 5 sindacati RATP per uno sciopero a oltranza a partire dal 5 dicembre. Quanto meno fra i lavoratori dei trasporti è ormai chiaro che singole giornate di sciopero, a “greve perlée”, e limitati a una o poche categorie non sono in grado di far retrocedere il governo.

Il 26 settembre la dirigenza confederale di FO annuncia l’adesione all’appello dei sindacati RATP, ma solo per la giornata del 5 dicembre! Segue la dirigenza nazionale di Solidaires con la stessa riserva.

All’inizio di ottobre si uniscono all’appello, ma per lo sciopero a oltranza, diverse sezioni territoriali della CGT ed il 10 ottobre la potente federazione del pubblico impiego (CGT Services Publics), nel cui comunicato afferma: «le giornate di azione isolate non corrispondono più alle aspettative dei militanti e dei lavoratori». Nonostante ciò la dirigenza confederale della CGT continua a sostenere la strategia di giornate di sciopero singole e divise per settore, per aprire alle trattative con il governo.

Domenica 6 ottobre i gruppi radicali nella RATP – La Base, Rassemblement syndical e CGT frondeurs – lanciano un appello in cui si legge: «Il nostro movimento ha bisogno di una direzione nazionale, intercategoriale, revocabile, efficiente. Le dirigenze dei sindacati confederali si mostrano troppo reticenti a mettere in atto la volontà di lotta unitaria espressa nelle assemblee generali [durante lo sciopero del 13 dicembre]. Occorre un Coordinamento Nazionale e Intercategoriale, Democratico e Unitario che sostituisca le dirigenze delle centrali sindacali inerti». L’appello esprime poi l’intenzione di partecipare all’assemblea del 16 ottobre presso la stazione di Saint Denis promossa dai ferrovieri del “Collectif Intergares”, un collettivo di lavoratori di diverse stazioni formatosi durante lo sciopero del 2018 contro il “Patto ferroviario”.

Il giorno prima alla “Bourse du Travail”, così si chiamano le Camere del Lavoro in Francia, di Saint Denis si svolge una prima assemblea intercategoriale dei fronti di lotta della Ile de France, in cui le categorie più rappresentate sono insegnanti e postini.

Da diversi incontri che si svolgono nei mesi di ottobre e novembre nascerà un coordinamento intercategoriale della Regione di Parigi dei lavoratori RATP, SNCF e delle poste per il ritiro dell’intero progetto di riforma e per lo sciopero intercategoriale a tempo indeterminato a partire dal 5 dicembre. Questo coordinamento si chiamerà alla formazione di comitati di sciopero, cercherà di unire l’azione delle organizzazioni sindacali e le lotte al di sopra delle divisioni fra categorie e fra i settori pubblico e privato.


Alle officine del TGV

In ottobre, presso l’officina di Châtillon, nell’Ile de France, per la manutenzione dei TGV, i treni ad alta velocità, a seguito di una modifica dei turni con l’annullamento dei riposi e l’aumento dell’orario, unitariamente le sezioni di SUD Rail e CGT presentano una Domanda di Concertazione Immediata. L’incontro con la direzione fallisce. I 200 operai dell’officina si organizzano, tengono diverse assemblee e lunedì 21 ottobre iniziano uno sciopero senza il preavviso legale e ad oltranza, “fino al ritiro del progetto della direzione”. “Rispetteremo il periodo di preavviso il giorno in cui la direzione rispetterà i lavoratori delle ferrovie”, recita il primo comunicato degli scioperanti.

La direzione della SNCF avvia un procedimento disciplinare contro i lavoratori ma dopo 10 giorni di sciopero è piegata, ritira il piano aziendale e anche le sanzioni.


Tattica dilatoria

Il 16 ottobre – sotto la spinta delle sezioni territoriali e di fabbrica, e dei lavoratori su queste – le dirigenze confederali di CGT, FO, Solidaires‑SUD e FSU annunciano la proclamazione per il 5 dicembre dello sciopero generale intercategoriale, ma solo per la giornata, e la formazione di una intersindacale nazionale.

È un’azione che apparentemente viene incontro alla necessità di una mobilitazione generale di tutta la classe ma che invece tende a frenare i settori più radicali, che già si sono messi in movimento e che spingono per lo sciopero a oltranza.

L’8 novembre è la CGT Ferrovieri ad annunciare di unirsi all’appello per lo sciopero a tempo indeterminato (“reconductible”: rinnovabile). Decisione che le federazioni di categoria di SUD e FO avevano preso, come detto, già il 24 settembre.

Seguono poi le federazioni nazionali CGT delle Industrie Chimiche (FNIC) e delle Miniere e dell’Energia (FNME CGT).

Nel settore della scuola sostengono lo sciopero “rinnovabile” i sindacati minoritari (Sud Education, FERC‑CGT, FO) mentre la FSU si limita alla chiamata dello sciopero per la sola giornata del 5.

Il 21 novembre si uniscono due sezioni locali della CFDT Ferrovieri, opponendosi alla direzione sindacale di categoria e, ovviamente, a quella confederale.

Tre giorni dopo, il 24 novembre, i primi tre sindacati della SNCF – CGT, UNSA, SUD – lanciano un appello unitario per lo sciopero ad oltranza.

A fronte di questa marea crescente la condotta melliflua della dirigenza nazionale confederale della CGT è esemplificata dal segretario nazionale Philippe Martinez: «Auspichiamo uno sciopero rinnovabile a partire dal 5 dicembre e saranno i lavoratori, nelle assemblee generali, a decidere se vogliono rinnovarlo o meno. Ci auguriamo che questa mobilitazione duri (...) Anche nel 1968 non fu uno sciopero generale: la CGT chiamò all’azione ovunque e furono gli operai a generalizzare gli scioperi. Non c’è un bottone magico nell’ufficio del segretario generale per dichiarare uno sciopero generale».

La dirigenza nazionale della CGT abdica quindi al suo ruolo di direzione del movimento: non proclama lo sciopero generale, non indice lo sciopero a oltranza, e maschera il vero scopo di questa condotta attendista e disfattista – contro il montare del movimento – col pretesto della democrazia interna, per cui dovrebbe essere la base a decidere se far diventare lo sciopero generale. Chi centralizzerà le lotte? Chi le unificherà e le estenderà? Una dirigenza confederale serve dunque solo ad attendere la base e a trattare col governo? Se le dirigenze nazionali delle federazioni di categoria proclamano scioperi nazionali perché non deve farlo la dirigenza confederale?

Le assemblee sui posti di lavoro devono essere convocate con la chiara indicazione centrale nazionale che si ritiene maturo e necessario lo sciopero e che, in nome della classe tutta, lo si vuole. Solo così può riuscire!

Ma questo è un compito politico, un ordine che solo un partito di classe può impartire. Ed oggi, né in Francia né altrove, di partiti di classe non ve ne sono. Qui la differenza fra proclamare lo sciopero e auspicarlo.

Martinez lo auspica perché sa che fra le assemblee generali dei lavoratori vi è l’apparato del sindacato sul quale può contare, le strutture ai vari livelli, le dirigenze locali e di categoria tutte ben contrarie al sindacalismo di classe e ad una vera mobilitazione.

Martinez fa il doppio gioco: finge di schiacciare sull’acceleratore mentre pigia il freno. Auspica quella generalizzazione della lotta che facilmente impedisce facendo mancare la sua decisione conseguente di organo dirigente del sindacato.

Questo perché non vuole rinunciare alla “funzione negoziale”, perché non vuole che la riforma sia affossata, come chiedono i lavoratori in lotta, non vuole essere escluso dal gioco della concertazione. Quella concertazione per la quale nella crisi i governi borghesi non hanno più nulla da concedere, rendendo sempre più difficile la recita di un sindacato di regime travestito da combattivo.

(segue al prossimo numero)

 

 

 

 

 

 


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Trump‑Bernie i falsi rivali nelle elezioni presidenziali americane

Il sistema democratico non può che irrobustire il dominio della borghesia, tanto che sia in carica un falso riformista quanto un reazionario aperto.

Il 5 febbraio, dopo tre anni di schermaglie procedurali, il presidente Donald Trump è stato assolto dal Senato nel processo di impeachment. L’assoluzione dalle accuse di “abuso di potere” e “ostruzione al Congresso” gli permette di rimanere in carica almeno fino alla fine del suo attuale mandato, con grande soddisfazione da parte della consorteria repubblicana e smacco della democratica.

In realtà l’assoluzione dell’imputato era certa fin dall’inizio e tutta la trafila non è stata che una sceneggiata fra compari. I repubblicani pretendevano “un giusto processo”; i democratici “una giusta condanna”. Entrambe le parti, con i loro atteggiamenti, hanno agito come propagandisti dello Stato borghese e del suo sistema giudiziario. Per i democratici, l’impeachment sarebbe stato il trionfo della separazione dei poteri, del dovere civico separato dall’interesse personale, della sovranità del popolo. I repubblicani, dal canto loro, hanno ostentato la loro dedizione a una forma di ordine paternalistico, alla necessità di un comando rapido ed efficiente per la difesa della nazione, accentrato in una unica personalità intoccabile.

Del resto per la “giustizia” i difensori del loro Stato sono sempre innocenti, mentre i lavoratori che si difendono sono sempre colpevoli. Per altro, visti gli smisurati costi dei processi, alla maggior parte dei proletari imputati conviene dichiarasi colpevole, mentre un miliardario può sempre dimostrare la sua innocenza. Questa è la giustizia borghese!

Anche il tipo di imputazioni mosse al presidente provano il carattere reazionario della stessa parte accusante. Il crimine di Trump sarebbe stato quello di modificare l’attuale strategia imperialista degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina. L’”abuso di potere” che offende i democratici era il blocco degli aiuti militari, seppure per interessi personali, ad un governo anti‑russo, un governo apertamente reazionario che i democratici sostengono pienamente e con entusiasmo!

Allo stesso tempo è partita la macchina elettorale per le “primarie” del Partito Democratico. Ne è spuntato fuori il senatore Bernie Sanders, che si definisce “socialista democratico”, arrivato secondo in Iowa e in South Carolina e primo in New Hampshire e in Nevada.

Sanders si presenta come “il volto” della resistenza alla presidenza Trump, il salvatore della democrazia negli Stati Uniti. Però i suoi sostenitori vi vogliono vedere non solo una “alternativa” a Trump ma il portatore di una “rivoluzione politica” negli Stati Uniti.

Molto bene! Ma quando arriverebbe questa rivoluzione, e cosa cambierebbe? E cosa dovremmo fare per imporla di fronte a una sicura massiccia opposizione?

Ogni rivoluzione ha dovuto affrontare domande come queste. L’insurrezione in Russia è riuscita nel 1917 perché il Partito comunista aveva le risposte giuste, un partito preparato e rafforzatosi per molti anni, sulla base del programma intransigente del marxismo rivoluzionario. La sollevazione scoppiò durante la convocazione del Congresso dei soviet di tutta la Russia, base di classe del sostegno politico al partito. Questo poté così instaurare una dittatura del proletariato basata sul sistema di rappresentanza sovietico. I Comitati Militari-Rivoluzionari e le Guardie Rosse sostennero la rivoluzione con la forza delle armi.

Che ne è invece di Sanders e dei “socialisti democratici” negli Stati Uniti? La loro presunta rivoluzione starebbe per arrivare, anzi, sta già avvenendo, a seconda delle chiacchiere nei discorsi da campagna elettorale che si sentono. Prima col voto faremo di Bernie il presidente, poi, forse, metterebbe su quel tipo di Stato sociale che si sta disintegrando sotto i nostri occhi negli altri Paesi travolti anch’essi dalla crisi.

E come riuscirà ad imporre anche queste molto moderate riforme? La borghesia, che le aborrisce, manderà i militari e la polizia, che sono lì pronti a sua disposizione. Anche tutti i civili reazionari sono pesantemente armati e formerebbero le loro milizie. Ma i “socialisti democratici” di Bernie chiedono che tutte le armi passino nelle mani dello Stato borghese!

Ci sono solo due opzioni per questa rivoluzione politica. O fallirà completamente contro l’opposizione che le sue forze non possono contrastare, o si limiterà così tanto da diventare un qualsiasi movimento civico liberale, per niente diverso dal Partito Democratico che conosciamo da sempre. In entrambi i casi svelerà le sue meschine idealità borghesi.

Una rivoluzione è una vera lotta per la vera liberazione di una classe oppressa, il proletariato oggi. Quando il capitalismo sta diventando economicamente insostenibile, allora il proletariato può liberarsi. Questo è ciò che intendevano Marx ed Engels quando hanno chiamato il comunismo “il movimento che abolisce lo stato delle cose presenti”, cioè che sradica completamente il capitalismo e libera la nuova società matura al suo interno.

Le rivoluzioni politiche non arrivano per volontà degli uomini politici, e nemmeno dei militanti. Sono le classi, dirette da un partito di classe rivoluzionario, che fanno le rivoluzioni. Perché, come Marx ed Engels hanno scritto, “ogni lotta di classe è una lotta politica”.

Sanders, i democratici e il “socialismo democratico” americano non saranno mai in grado di abolire la società attuale, e quindi non apriranno mai la strada al comunismo, nemmeno se lo volessero. Solo il partito comunista, in quanto rappresentante consapevole e militante del proletariato internazionale, può impegnarsi in queste funzioni.

 

 

 

 

 


Le Foibe: giornata “del ricordo” o dell’amnesia?

La commemorazione della vicenda legata al nome delle foibe, istituita per Legge ogni 10 febbraio come “Giornata del Ricordo”, anche quest’anno è stata occasione per riscrivere la storia secondo il tanfo nazionalista che la borghesia italiana impone alla classe lavoratrice a fini di conservazione sociale e politica. Un’abnorme esposizione mediatica ha fornito una narrazione che esclude ogni responsabilità dell’imperialismo italiano per quanto accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale nella ex Iugoslavia e nei Balcani, facendo ricadere la responsabilità degli eccidi sul “comunismo”, assimilato alla sua menzognera variante nazionale del borghesissimo regime titino.

Questo “comunismo nazionale” effettivamente fu responsabile dei massacri. Si perpetrarono in due ondate: la prima nel settembre-ottobre del 1943, nei giorni e nelle settimane successive all’armistizio; la seconda nella primavera del 1945, alla fine della guerra. Migliaia di appartenenti alla minoranza italiana furono uccisi e gettati nelle foibe, cavità carsiche che sprofondano per alcune decine di metri nel terreno. Molti altri morirono nei campi di concentramento, durante le deportazioni con estenuanti marce forzate, altri furono affogati nell’Adriatico o giustiziati e sepolti nelle miniere di bauxite. Quel che si cercava era la pulizia etnica dell’elemento nazionale italiano.

Ma era un’impresa del tutto speculare ai tentativi di assimilazione dell’elemento etnico slavo perseguiti nei tre decenni precedenti da parte del governo italiano.

Per sgombrare il campo da fraintendimenti circa la nostra lettura della questione, che altro non è che il punto di vista internazionalista e proletario, occorre spiegare le infamie di quella vicenda su entrambi i fronti, inserendole nel contesto generale della Seconda Guerra Mondiale e della contesa fra imperialismi rivali, anche fra alleati. Questo il corteo di “storici” e giornalisti asserviti hanno dimenticato o omesso, per ignoranza o servilismo. Nessuno fra questi ha ricordato i decenni precedenti la guerra in cui l’imperialismo italiano, prima in veste democratica poi fascista, aveva fatto di tutto per estendere la propria sfera d’influenza nella regione balcanica, decenni di oppressione nazionale inflitti alle popolazioni dell’Istria, delle “Provincie Giuliane” e della Dalmazia, costrette a parlare italiano e discriminate politicamente ed economicamente.

L’inclinazione della borghesia, quella italica per prima, ad aggiustare il passato non è certo prerogativa della “destra”, tornata già da quasi tre decenni a rivendicare il passato fascista: anche la “sinistra”, non meno sciovinista e anticomunista, ha da tempo aderito alla vulgata storica patria. Dai libri di storia e dalle rievocazioni giornalistiche spariscono così gli eventi legati alla fase fra il 1919 e il 1922 quando gli squadristi, sicari prezzolati della borghesia e del democratico Stato italiano, furono scatenati contro tutti i segni della presenza slava, come avvenne a Trieste nel luglio del 1920 con l’incendio della Narodni Dom, la Casa del Popolo. L’amministrazione italiana si dette quindi ad una politica di denazionalizzazione progressiva della popolazione slava e a un programma di “bonifica etnica”.

Come era naturale i croati e gli sloveni reagirono con atti di sabotaggio e con attentati, ai quali lo Stato italiano rispose con numerose condanne a morte e lunghe pene detentive.

Nel 1928 un decreto vietò l’insegnamento in sloveno e croato nelle scuole della Venezia Giulia, inasprendo il divieto previsto già dalla riforma Gentile del 1923 riguardante le lingue alloglotte. Un decreto del 1928 impose l’italianizzazione dei cognomi, mentre furono chiusi d’autorità numerosi circoli culturali e ricreativi croati e sloveni.

Anche sul piano economico si estese l’oppressione nazionale. La sottrazione all’Impero austro-ungarico della multietnica Trieste e delle province giuliane, le privò dei traffici del maggiore porto marittimo dell’Europa centrale, un elemento che aveva contribuito al radicamento di una tradizione operaia internazionalista.

La concorrenza delle produzioni a più basso costo della Pianura Padana aveva impoverito l’agricoltura locale. Questo permise l’espulsione dei contadini slavi dalle loro terre, che si realizzò anche attraverso diretti interventi governativi tesi a strangolare i piccoli produttori. I contadini furono costretti a rivolgersi a istituti bancari che prestavano denaro a tassi di interesse usurari. Molti si videro costretti a svendere i campi, spesso gravati da ipoteche. Nel 1931 fu fondato l’Ente per la Rinascita Agraria delle Tre Venezie col compito di rilevare le terre pignorate dai contadini sloveni e croati e assegnarle a coloni italiani provenienti da altre regioni o ad agrari che le inglobarono nelle loro proprietà.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si assistette ad un ulteriore inasprimento di quel regime di oppressione nazionale.

Ma quando il 6 aprile del 1941 l’imperialismo italiano, accodandosi a quello germanico, partecipò a quella ”Operazione Castigo”, che dette principio alla conquista della Iugoslavia da parte delle potenze dell’Asse, aveva già dovuto ridimensionare le sue velleità sui Balcani. Ciò per la relativa debolezza della sua macchina militare, per la difficoltà di districarsi in un ginepraio di popoli ed etnie incapaci di dare vita a nazioni vitali e per i rovesci militari subiti in Grecia con la susseguente avanzata dell’esercito ellenico nell’Albania italiana.

L’occupazione italiana in Slovenia non tentò affatto di dissimulare gli intenti di assimilazione etnica e di annessione all’Italia delle regioni conquistate. Si voleva arrivare a una soluzione finale della “questione slovena” stroncando il movimento slavo nelle province giuliane e annettendo la Slovenia all’Italia. La costituenda provincia di Lubiana aveva 339.751 abitanti; gli italiani erano 458.

La lotta contro l’occupazione italiana si scatenò già dai mesi successivi alla conquista militare cui rispose un crescendo di repressioni sempre più sanguinarie. Le fucilazioni documentate di sloveni ammontarono a 1.569, alle quali vanno aggiunti i partigiani caduti in combattimento o fucilati alla cattura. Anche la Dalmazia e il Montenegro sotto il controllo italiano fra il giugno e l’agosto del 1942 subirono lo stesso trattamento della Slovenia. Nella sola provincia di Lubiana i prigionieri furono oltre 30.000, il 10% della popolazione; nell’intera Slovenia le vittime dell’occupazione italiana furono 13.100, il 3,8% della popolazione complessiva della provincia.

Nei campi di concentramento italiani, aperti tra il 1942/43, furono internati decine di migliaia di uomini. Di questi campi se ne ebbero in Venezia Giulia (Cighino, Gonars, Visco), in Veneto (Monigo di Treviso, Chiesanuova, in provincia di Padova), in Toscana (Renicci di Anghiari), in Umbria (Colfiorito), tutti alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Campi di lavoro furono organizzati a Fossalon (Venezia Giulia), Pietrafitta e Ruscio (Umbria), Fertilia (Sassari).

Più che campi di concentramento erano di sterminio dove anche donne, vecchi e bambini morivano di fame, di freddo e di malattie. Nel campo di Gonars ne morirono quasi 500, in quello di Renicci di Anghiari forse di più. Il campo di Laterina, in provincia di Arezzo, nella sua evoluzione, fu dapprima di concentramento, poi di prigionia ed infine, nel dopoguerra, di “accoglienza” per i profughi istriani.

Con l’avanzare della guerra e con il cambiamento dei rapporti di forza a sfavore delle potenze dell’Asse, prese slancio il movimento partigiano iugoslavo, egemonizzato dal Partito sedicente comunista di Tito. Questo partito era pienamente inquadrato nella politica staliniana, assumendo caratteri esclusivamente nazionalistici e piegando le istanze di rivoluzione sociale in funzione della lotta anti‑italiana. Si contrabbandava per lotta di classe quella che si andava profilando come una pulizia etnica della nazionalità fino allora dominante, venendo meno a ogni obiettivo di classe in senso proletario e comunista.

Le forze nazional-comuniste titine nella primavera del 1945 spostarono l’area delle operazioni militari nelle zone mistilingue, in cui era più forte la presenza italiana, al fine di assicurarsi al più presto il controllo di Trieste, di Gorizia e della fascia costiera. I nazional-comunisti iugoslavi, per procura dello Stato russo e in combutta con il PCI togliattiano, cercavano di estenderne il più possibile la sfera d’influenza fino all’Adriatico, in vista della futura contesa con gli altri imperialismi nel contesto postbellico.

Secondo questa politica, che va vista come un rovesciamento di ogni tradizione comunista e internazionalista, che pure avevano avuto una lunga tradizione sia nelle province giuliane sia in Serbia, i nazional-comunisti procedettero allo sradicamento della presenza italiana attraverso il terrore, che andò ben al di là dell’obiettivo di colpire gli elementi borghesi italiani, i quali erano stati al servizio dello Stato di classe e delle sue efferatezze, e che per questo potevano essere visti, anche a ragione, come responsabili dell’oppressione nazionale nei confronti delle popolazioni slave. La politica del rinato Stato capitalista iugoslavo era di preparare il dopoguerra asservendo ancora il proletariato su entrambi i fronti, quello slavo e quello italiano, alle esigenze dei nazionalismi borghesi e dell’accumulazione capitalistica postbellica.

Le masse lavoratrici furono portate a credere all’inganno della misera guerra partigiana, che nascondeva la realtà di una immane guerra fra imperialismi.

La sguaiata propaganda stalinista si spicciò a “spiegare” la poco successiva rottura fra l’Unione Sovietica di Stalin e la Iugoslavia di Tito. Scrivevamo nel nostro, allora, “Battaglia Comunista” n. 23 del 1948: «Dalla sera alla mattina gli operai hanno appreso dalle bibliche colonne dell’Unità che, contrariamente a quanto si era insegnato loro ed essi avevano calorosamente sostenuto nelle discussioni, in Iugoslavia non solo non esiste affatto il socialismo (...) La tanto decantata democrazia popolare iugoslava è in realtà “un regime vergognoso di puro dispotismo turco e di terrorismo”, e via di questo passo».

Dunque le condizioni storiche in cui maturò quello che la propaganda borghese designa come il “massacro delle foibe” furono quelle di una guerra imperialista, al cui compito di divisione del proletariato lungo le linee delle nazionalità collaborò con ardore il falso comunismo staliniano.

Quel falso comunismo il cui crollo, con lo smembramento imperialista della ex Iugoslavia, oltre a costituire la premessa di ulteriori massacri come quelli della guerra dal 1991 al 1995, ha permesso al capitalismo italiano di utilizzare le vittime della sua guerra nelle province giuliane e nella Dalmazia come materiale al sempre risorgente militarismo nazionalista.

L’infame ruolo storico dello stalinismo, anche dopo il suo tramonto, continua ad agire sul derelitto presente come uno spettro che rende ancora servigio antiproletario alla reazione borghese e al capitalismo internazionale.

 

 

 

 

 


In Medioriente dove “il nemico del mio amico può essere mio amico”

L’incalzare della crisi economica mondiale unisce potenze capitalistiche grandi e piccole in un comune destino. La saturazione dei mercati inasprisce la contesa fra le potenze per accaparrarsi i mercati di sbocco, per appropriarsi di terre ove investire e per succhiare il plusvalore prodotto da altri per mezzo della stregoneria della rendita.

La Turchia negli ultimi decenni ha vissuto una impetuosa crescita industriale. Questa a un certo punto ha posto il problema dell’espansione della sua sfera di influenza, che si è mossa lungo tre direttrici: i Balcani e il Mare Egeo; la sponda africana del Mediterraneo, e segnatamente la Libia, in anarchia militare; infine il Nord della Siria.

In questa direzione Ankara ha dovuto ridimensionare di molto i suoi sogni di grandezza a causa del rafforzamento dell’inimicissimo regime di Assad, sostenuto dalla forza militare di Russia e Iran. Questo, dopo nove anni di guerra civile, è riuscito a restare in piedi e a riconquistare gran parte del territorio nazionale e negli ultimi anni, grazie anche alla copertura aerea russa, ha condotto una forte offensiva contro la provincia di Idlib, nel Nord‑Ovest della Siria, dove si concentra ciò che resta di quelle milizie fondamentaliste islamiche che per lunghi anni hanno agito come longa manus delle mire espansionistiche di Ankara.

Un salto nell’intensità dei combattimenti si è avuto nella notte fra il 27 e il 28 febbraio quando aerei siriani e russi hanno effettuato un bombardamento che ha provocato la morte di 36 soldati dell’esercito regolare turco. Un rovescio militare imprevisto per il governo di Ankara che si trova a fare i conti con una crescente opposizione interna all’impegno militare in Siria.

I media turchi allineati col regime hanno accusato la Russia di coltellata alla schiena, infatti Ankara avrebbe comunicato ai russi gli spostamenti delle sue truppe, smentendo la versione di Damasco e di Mosca che l’obiettivo dei loro aerei fossero le milizie islamiste. Da più parti per un momento si è temuto lo scatenarsi della guerra diretta fra Siria e Turchia. Ma non è andata così.

Sullo scenario mediorientale i maggiori imperialismi hanno imposto da tempo nuove modalità per perequare la bilancia fra le forze in campo. Se dietro la Siria c’è sempre la Russia, questa a sua volta riesce a mantenere un altissimo livello di interlocuzione con la Turchia. La modalità attuale di svolgimento dei conflitti non esclude affatto che si stringano alleanze fra i padrini delle forze “nemiche” che effettivamente si scontrano nella proxy war. Al principio arcaico “il nemico del mio nemico è mio amico”, oggi subentra quello secondo il quale “il nemico del mio amico può ben essere mio amico”.

Così non stupisce che dopo la strage di soldati turchi, Mosca abbia dato il via libera all’azione dei droni turchi Bayraktar che hanno rovesciato un diluvio di fuoco sulle postazioni siriane provocando, secondo le fonti di Ankara, almeno trecento vittime fra le forze di Damasco. Evidentemente il placet di Mosca all’attacco delle forze turche rientrava nella necessità di offrire la possibilità a Erdoğan  di salvare la faccia di fronte all’opinione pubblica turca.

In seguito la controffensiva delle milizie fondamentaliste e delle truppe turche ha raggiunto la città di Saraqib, snodo fra l’autostrada M4, dalla città costiera di Latakia, e la M5 che scende fino al confine con la Giordania, nell’estremo Sud del paese.

Già il 1° marzo però l’esercito di Damasco riprendeva il controllo di Saraqib.

A quel punto la parola è tornata alla diplomazia. Il 5 marzo Erdoğan era a colloquio con Putin a Mosca: preso atto dell’ulteriore rafforzamento della Russia nella zona ha messo da parte ogni velleità di ritorsione all’umiliazione subita.

Si pensi che nei giorni precedenti il governo turco aveva esaminato perfino la possibilità di porre regole più restrittive al transito delle navi attraverso gli Stretti, colpendo soprattutto la Russia. Ma mettere in discussione il trattato di Montreux, risalente al 1932, avrebbe immancabilmente scatenato un putiferio, e probabilmente si è trattato di una trovata propagandistica da dare in pasto ai media, e ai malumori, nazionali.

L’accordo che ne è scaturito dopo sei ore di colloqui ha stabilito il cessate il fuoco con la sostanziale spartizione della regione di Idlib: l’autostrada M5 resterà sotto il controllo di Damasco, la M4 segnerà il confine: a sud di essa il controllo tornerà al regime siriano, mentre l’area a nord sarà affidata, almeno per il momento, alle milizie jihadiste e all’esercito turco. Difficile prevedere quanto questa intesa potrà reggere.

Resta il fatto che la guerra siriana vede vari contendenti che in questa fase sono costretti ad affidare un ruolo arbitrale alla Russia. Lo fa Israele, che può contare sull’avallo di Mosca per colpire le milizie filo‑iraniane, alleate di Damasco, che premono ai suoi confini. L’aviazione israeliana ha compiuto centinaia di raid in territorio siriano (almeno 500 negli ultimi cinque anni) senza che la Russia battesse ciglio. Questa cortesia di Putin verso Israele corrisponde a una scortesia nei confronti dell’Iran, che a sua volta si pone in Siria sullo stesso fronte della Russia. È anche opposto a quello della Turchia, nonostante, a loro volta, i floridi scambi commerciali turco-iraniani.

Difficile trovare una logica facile quando il regime del capitale naviga a vista e quando, nelle fasi di stasi dei movimenti di guerra, un precario equilibrio fra potenze grandi e piccole viene mantenuto a suon di bombe. Quello che ci insegnano le recenti evoluzioni delle regole della proxy war, nei foschi tempi della putrefazione imperialistica, è che le alleanze borghesi non conoscono più alcun principio di reciprocità.

 

 

 

 

 


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La persecuzione dei musulmani risorsa della borghesia indiana per dividere i proletari

L’11 dicembre entrambe le camere del parlamento indiano hanno ratificato un controverso emendamento, proposto dal governo del primo ministro Narendra Modi, capo del partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party, allo scopo di “facilitare” la “regolarizzazione” degli immigrati provenienti da tre paesi confinanti: il Pakistan, l’Afghanistan e il Bangladesh.

Questo Citizenship Amendment Bill, che viene ad aggiornare il Citizenship Amendment Act del 1955, prevede l’espulsione o la prigione per gli immigrati irregolari e stabilisce che per ottenere la cittadinanza uno straniero debba trovarsi in India, o aver lavorato per il governo federale, da almeno 11 anni. Allo stesso tempo introduce delle eccezioni per i membri di sei minoranze religiose. Ad induisti, sikh, buddisti, giainisti, parsi e cristiani è data la possibilità di chiedere la cittadinanza dopo esser vissuti in India da sei anni. Da questo elenco di possibili richiedenti asilo sono quindi implicitamente esclusi i cittadini di fede musulmana, poiché, a detta del BJP, «non hanno bisogno di protezione in quanto costituiscono la maggioranza nei paesi di provenienza».

È vero che, come musulmani, costituiscono la maggioranza nei loro paesi, ma si dimentica che per lo più le persecuzioni che un fuggitivo lamenta hanno motivazioni non di religione ma di classe, sindacali o politiche.

Per altro nei tre paesi sono vittime di repressione anche alcune minoranze musulmane, come gli ahmadiyya, comunità che vive principalmente in Pakistan, i baluci, popolo iranico presente, oltre che nell’Iran, anche in Afghanistan e in Pakistan, e gli hazaras, gruppo etnico presente prevalentemente in Afghanistan

Ed oggi sono esclusi i rohingya, braccati e fuggiti in gran numero dal Myanmar, dei quali attualmente circa un milione sono ammassati in Bangladesh in fatiscenti campi profughi. Non di rado superano il confine indiano, in Assam, dove li attendono le forze di polizia per rinchiuderli in campi di lavoro (di detenzione) allestiti dal governo indiano. A dicembre, appresa la notizia della nuova legge, 1.300 profughi rohingya dall’India si sono rifugiati nuovamente in Bangladesh per timore di essere rimpatriati in Birmania dove, ancora oggi, non esiste per loro alcuna protezione dai pogrom.

In India, oltre agli immigrati da altri paesi, solo nel 2018 circa cento milioni di immigrati interni si sono spostati verso i maggiori centri di produzione industriale, New Delhi, il Gujarat ed il Kerala: un enorme esercito di senza riserve a disposizione del capitale.

Appellandosi alla “sacra”, quanto inutile, Costituzione, la fazione borghese oggi all’opposizione, il Congresso Nazionale Indiano, critica il partito al governo definendo discriminatoria la legge nei confronti della comunità musulmana, che, ricordiamo, conta in India oltre 200 milioni di cittadini. Il ministro degli interni in carica, Amit Shah, ha avuto l’impudenza di replicare che il Bill «non cita nemmeno una volta l’Islam» e «non toglie alcun diritto ai musulmani»... indiani.


Dalle università alle piazze

Nei giorni successivi all’approvazione della legge si sono svolte le prime contestazioni. A Nuova Delhi l’Università pubblica di Jamia Millia Islamia, frequentata prevalentemente da studenti musulmani, ha fatto da epicentro alle proteste nella capitale. La polizia è entrata nell’università facendo centinaia di feriti, molti dei quali immediatamente sottoposti a processi e a condanne. Anche la Aligarch Muslim University, un altro istituto pubblico a 130 chilometri dalla capitale, è stato violentemente attaccato dalla polizia.

Con il passare dei giorni le proteste hanno preso vigore e in molte città si sono svolte grandi manifestazioni composte prevalentemente da studenti e mezze classi, in maggioranza musulmani, ma hanno partecipato anche diversi indù in nome della parità civile. I principali slogan sono rivolti contro il governo accusato di intolleranza religiosa. Le piazze inneggiano al rispetto della borghese costituzione, formalmente impostata sull’uguaglianza dei cittadini, e invocano uno Stato laico e democratico.

A Nuova Delhi e in altre città nelle proteste si è espresso anche il malcontento generale delle classi subalterne. I manifestanti hanno bloccato le strade e le metropolitane, al che la polizia non ha esitato a rispondere con cariche violente e sparando sulla folla. Scontri si sono verificati anche in Assam e nello Stato del Bengala dove i manifestanti hanno incendiato 4 treni paralizzando la circolazione ferroviaria.

In generale la repressione della polizia, affiancata da milizie “illegali” di assassini, è stata brutale, soprattutto dove era preponderante la presenza musulmana. Il bilancio, per il momento, è di 29 morti (di cui 19 in Uttar Pradesh) e migliaia di arresti in tutto il Paese con l’accusa di distruzione delle proprietà e saccheggio.

In diverse zone il governo ha tagliato per giorni le telecomunicazioni, dai quartieri più mobilitati di Mumbai e di Nuova Delhi non era possibile comunicare. È una censura non nuova in India: ad agosto, per esempio, il governo ha bloccato tutta la rete il giorno prima dell’invasione del Kashmir, e ancora oggi nella regione è impossibile collegarsi. Quello indiano è lo Stato al mondo che più frequentemente spegne internet. Mancando ancora reali strutture politiche e sindacali, le rivolte sono costrette ad organizzarsi tramite la rete: basta interromperla per facilitare la repressione.


Il Registro Nazionale

La legge sulla cittadinanza si iscrive nella istituzione del National Registry of Citizens, un Registro introdotto ad agosto nello Stato dell’Assam, nel nord‑est dell’India: è un censimento nel quale ogni residente è chiamato a produrre la documentazione necessaria a provare di essere entrato nello Stato prima dell’indipendenza del Bangladesh nel 1971. Il BJP ha definito il Registro uno strumento per scovare ed espellere gli «immigrati musulmani illegali».

Per la difficoltà di reperire vecchi certificati, smarriti o mai ricevuti, sono finiti nelle liste di espulsione più di un milione di cittadini. Questi non sono solo di fede musulmana. Ma il Citizenship Amendment Bill viene ora a facilitare la concessione della cittadinanza agli appartenenti ad una delle religioni “privilegiate”. Per tutti i musulmani finiti nella rete invece non rimarrebbe che la deportazione.

A novembre è iniziato il censimento, svolto da funzionari locali, quasi tutti indù, i quali, porta a porta, trascrivono le storie dei censiti e ne decidono le “origini” in base alla tradizione etnico-religiosa di provenienza del nucleo familiare. Non stupisce apprendere come l’appartenenza alle classi superiori possa facilitare se non determinare l’assegnazione della cittadinanza: chi può permetterselo non ha difficoltà ad ottenere la documentazione richiesta. Il contrario per molti altri, lavoratori della terra o popolazioni tribali o dalit, i fuori casta, i cui nomi nemmeno appaiono nei registri catastali o all’anagrafe: riconosciuti dai tribunali come irregolari sono “momentaneamente” deportati in centri di detenzione in attesa dell’espulsione.

Il partito al governo ha dichiarato che intende estendere questo Registro a scala nazionale entro il 2024.

L’Assam, insieme ad altri sette Stati nord orientali, i Seven Sister States, è collegato al resto del territorio indiano, a occidente, dal corridoio di Siliguri, nel Bengala Occidentale, largo solo 22 chilometri. Ha una storia caratterizzata da confini labili, invasioni e migrazioni. Divenuta una colonia, il capitalismo, importato dagli inglesi, ne mutò profondamente la società e il legame dell’uomo con la terra. La proprietà, dapprima collettiva, divenne individuale. Gli inglesi, per rafforzare la produzione nelle immense piantagioni di tè, e diminuire la resistenza delle popolazioni locali, importarono molti contadini musulmani in Assam, modificandone la composizione etnico-religiosa.

Con l’indipendenza del 1947, con la tragedia della partizione e con la successiva guerra indo‑pakistana del 1971, che dette nascita al Bangladesh, i confini dello Stato risultarono tracciati solo sulla carta.

In questo scenario, con il passare degli anni gli indù, plagiati dalla propaganda della locale borghesia e della loro relativa minor miseria, si opposero alle minoranze musulmane. Il 18 febbraio 1983 avvenne il massacro di Nellie dove, in una mattinata, furono trucidati migliaia di immigrati musulmani, arrivati in Assam dal Bengala Orientale, ai quali Indira Gandhi aveva promesso il diritto di voto. Un pogrom pianificato dalla componente estremista indù con il beneplacito della classe dominante locale.

Appoggiandosi a questa tradizione Narendra Modi può far breccia sulla maggioranza indù di tutto il Paese, in particolar modo sulle parte più povera, delusa dalle infinite e non mantenute promesse del Partito del Congresso.


Nel Kashmir

Nell’articolo “Kashmir, Focolai di guerra per distogliere le masse proletarie” pubblicato nel n.394 di questo giornale avevamo descritto la situazione in cui si trovava la tormentata grande regione del Kashmir subito dopo il sanguinoso attentato avvenuto il 14 febbraio scorso, e come il “problema Kashmir” fosse in realtà utile alle classi dominanti, indiana e pakistana.

Il governo ha poi continuato ad inasprire le tensioni nella regione. Il 5 agosto il presidente indiano Ram Nath Kovind ha emesso un ordine di revoca dell’Articolo 370 della Costituzione che concedeva uno stato speciale allo Stato himalayano, di fatto una minima autonomia. Lo Stato Jammu e Kashmir è quindi stato diviso e declassato a due Union Territories amministrati direttamente da Nuova Delhi. Assorbito sotto la legge indiana, sono annullate la Costituzione locale, la bandiera e le leggi relative alla proprietà e all’eredità. Inoltre alla nuova amministrazione è tolto il Ladakh, l’area vicina al Kashmir cinese, che da adesso sarà una unità territoriale separata.

Alcuni giorni prima del “declassamento” tutte le comunicazioni nel territorio sono state interrotte, sospendendo l’accesso alla rete mobile, fissa e internet. Vi sono state diverse proteste e manifestazioni di piazza, immediatamente represse. Migliaia gli arrestati, grazie a una legge sulla sicurezza pubblica che consente di richiudere in carcere un cittadino fino a due anni sulla base di semplici sospetti. Molte città e villaggi sono stati mantenuti per diverse settimane in stato di assedio e sotto coprifuoco. Da agosto altri 100.000 soldati indiani si sono uniti alle truppe già presenti, raggiungendo i 600.000 uomini.

Il Partito del Congresso, infame nemico della classe lavoratrice tanto quanto il BJP, sostiene che la crisi in Kashmir è dovuta all’oltranzismo religioso del partito al governo. Tesi che ignora l’intreccio di interessi geopolitici regionali fra India e Pakistan e il complesso rapporto con i più grandi imperialismi, Cina per prima.

Modi ha sì ostentato la politica dell’India nella regione coerentemente all’atteggiamento ideologico del suo partito, ma è indubbio che tutte le sue azioni siano dettate, come in ogni altra parte del mondo, dalle ineluttabili leggi del Capitale.

Per esempio, eliminata l’autonomia, sarà possibile ai capitalisti indiani e stranieri investire e trasferirsi in Kashmir, il che prima non era del tutto libero. Il capitale richiede di aumentare la produzione agricola, sfruttare maggiormente il turismo e sviluppare altre attività industriali funzionali all’economia indiana. Non è un caso che il ministro dell’interno abbia dichiarato che, appena rimosse queste obsolete disposizioni statutarie, la regione himalayana, nel giro di dieci anni, diventerà (sperano) una delle più sviluppate del paese. Uno sviluppo che prevede, anche, la costruzione della prima ferrovia per collegare la valle del Kashmir al resto dell’India.

Tutto questo ha provocato un aumento delle tensioni tra New Delhi e la nemica giurata Islamabad. Il governo pachistano ha espulso l’Alto Commissario indiano, sospendendo gli scambi commerciali e l’accesso aereo. Numerose violazioni del cessate il fuoco alla frontiera si sono verificate negli ultimi mesi del 2019. Anche nel Kashmir pakistano (Azad Kashmir) ci sono state proteste contro l’abolizione dell’articolo 370. Secondo l’attuale premier pakistano Khan si prospetta “una crisi di rifugiati che farà impallidire le altre crisi”, aggiungendo che il Pakistan non sarà in grado di accoglierne altri.


La crisi economica

Quanto sta avvenendo in questi mesi in India non è certo provocato dalla ideologia apertamente nazionalista e religiosa del partito della classe dominante oggi al governo, ma da i fattori oggettivi che ne caratterizzano l’azione. Negli ultimi cinque anni la produzione industriale dell’India è cresciuta, ma a ritmo altalenante. Secondo i dati non ufficiali crescerà ancora nel 2019, ma con velocità ridotta rispetto all’anno precedente, quando fu del +5,8% annuo. In particolare si evidenzia il rallentamento della crescita dell’industria manifatturiera (+1% nel periodo giugno-agosto, a fronte del +10% del 2018). Anche i dati del PIL sono in costante calo, si passa dall’8% nella primavera 2018 al 5,8% a marzo 2019 scendendo a giugno al 5%. Una situazione preoccupante che ha spinto la Banca Mondiale a parlare di grave rallentamento ciclico.

I disoccupati registrano numeri record, oltre 13 milioni, superando il 7%, il tasso più alto da 45 anni. È nelle campagne la situazione più difficile: un giovane su cinque non ha lavoro e i salari spesso permettono appena una stentata sopravvivenza.

Nel settore automobilistico si hanno 9 mesi consecutivi di contrazione delle vendite. Le case produttrici, i fornitori di componenti e i rivenditori hanno licenziato nell’ultimo biennio ben 300.000 lavoratori. Solo nello scorso mese di Settembre la Maruti Suzuki ha espulso 3.000 operai.

Una economia che quindi non riuscirà a modificare il quadro drammatico del Paese dove 100 milioni di uomini vivono con meno di 2,5 dollari al giorno, nonostante l’affermarsi in grande del capitalismo, ma dove il reddito medio pro‑capite supera di poco i 2.000 dollari annui (dato del 2018).

Questo benché l’India continui ad essere una delle più grandi economie e in più rapida crescita, che non manca di attrarre le sanguisughe legate al profitto ed alla speculazione, una destinazione privilegiata per gli “investitori”.


Ma i proletari scioperano

Mentre scriviamo, lo scorso 8 gennaio si è svolto un grande sciopero generale, organizzato da dieci centrali sindacali, contro la politica economica del governo Modi, in particolare contro le privatizzazioni. Milioni di lavoratori hanno incrociato le braccia, alcuni media parlano del più grande sciopero al mondo, a cui avrebbero partecipato duecento milioni di salariati, ampliatosi con l’adesione di oltre 150 sindacati contadini.

Oggi è un movimento politicamente pienamente integrato, contenuto e diretto dalle dirigenze sindacali gestite dal Congresso e da altri partiti all’opposizione, come i diversi partiti comunisti di tradizione stalinista o maoista.

Ecco infatti come si esprime il Centre of Indian Trade Unions, grande sindacato affiliato politicamente al Partito Comunista Indiano(M): «Il governo ha fallito nel contrastare la crisi economica. Al tempo stesso, è impegnato a privatizzare e vendere proprietà del settore pubblico, risorse naturali e altri beni nazionali. Tutto questo va a svantaggio dell’interesse nazionale e dello sviluppo del Paese». Si fa appello all’interesse nazionale, un bene supremo, comune e collettivo, secondo i falsi comunisti, che in realtà non è altro che il bene del Capitale, della classe dominante che si arricchisce impoverendo i lavoratori.


Contro tutti i partiti borghesi

Gli avvenimenti descritti ci mostrano come anche la “maggiore democrazia al mondo”, così vuol farsi chiamare l’India vantando il gran numero di “elettori”, non escluda l’impiego su vasta scala del razzismo di casta e delle persecuzioni e degli eccidi per motivi di fede religiosa. L’odiosa ideologia del suprematismo hindu propria del BJP è voluta e costantemente alimentata per frastornare e dividere le classi inferiori, che in maggioranza sono costrette a vivere in condizioni di miseria: un’arma di distrazione e divisione di massa. Questo dà il pretesto alle “opposizioni”, ugualmente borghesi, di mostrarsi civili, moderne, umanitarie, pacifiste, legalitarie. Il bombardamento mediatico da entrambi i lati è quindi imponente.

Anche in India non si tratta solo di retaggi storici di particolari società, propri di radicate antiche culture o residui di rivoluzioni borghesi incompiute. È questa solo un’apparenza, una illusione, e una consolazione. Le vicende del Novecento europeo dimostrano che forme spietate e “industriali” di razzismo non sono affatto incompatibili con gli apogei storici della democratica civiltà borghese, tecnica, politica e culturale, e ben dopo che la sua falsa ideologia ha compiuto appieno la trasformazione del fedele e del suddito in cittadino. E questo per funzioni non solo sovrastrutturali di imbonimento ma come necessaria, razionale e moderna risposta capitalista, nella crisi, alla sovrappopolazione relativa.

È così che oggi in India, con le leggi sulla cittadinanza e del Registro in Assam i sentimenti anti‑musulmani e genericamente contro le minoranze sono quotidianamente aizzati dalla propaganda borghese per creare l’immagine di un “nemico interno”, utile per dividere i milioni di proletari.

Saranno i lavoratori delle grandi città, i proletari delle campagne, organizzati e uniti fra loro, e collegati nei sentimenti con i loro fratelli di classe negli altri Paesi, che, al di là delle artificiose categorie che oggi li separano – etnia, religione, casta – si scaglieranno contro la classe dominante borghese per passare all’attacco contro i padroni e i loro Stati.

Inevitabilmente dovranno combattere anche le dirigenze delle maggiori centrali sindacali, alcune delle quali, l’All‑India Trade Union Congress e il Centre of Indian Trade Unions, sono dirette dai mistificatori del comunismo, come il Partito Comunista Indiano e il Partito Comunista Indiano (marxista).

Sarà in questo processo che i proletari migliori del subcontinente si avvicineranno nuovamente all’originario programma rivoluzionario del comunismo, rifiutando quella collaborazione nazionale che chiedono i falsi comunisti, e dirigendo le loro lotte per gli interessi immediati della classe, nella prospettiva di adempiere domani al compito storico a cui sono chiamati, una società semplicemente umana, finalmente libera dalle concrezioni di millenarie società di classe, dalle loro superstizioni religiose e opposizioni ormai negate dalla storia.

 

 

 

 


Filippine
La triste condizione dei piccoli contadini

«L’agricoltura non è uno scherzo / tutto il giorno giù la testa in due piegati / non seduti e non in piedi», questa la canzone filippina, dove il duro lavoro dei contadini, per lo più “magsasaka”, i coltivatori di riso, è dei più negletti.

Il riso è l’alimento base della maggior parte dei filippini, benché tra il 2005 e il 2010 il prezzo sia salito dai 15 pesos ad almeno 45 al chilo per una qualità decente.

I piccoli contadini delle Filippine sono stretti nella morsa fra i grandi proprietari fondiari, che detengono la maggior parte del territorio agricolo, e i monopoli mondiali dell’”agrobusiness” che si accaparrano le terre migliori per colture industriali impiegando salariati.

Nel 2015, a seguito della continua siccità, i contadini avevano chiesto al governo impianti per l’irrigazione. Uscì un “progetto fantasma” a Cotobato City, Maguindanao, da 64 milioni di pesos che avrebbe dovuto essere presto completato ma che non ha mai funzionato.

Non è la prima volta che vanno in onda interviste a contadini. Una recente dalla Nueva Ecija, nel centro di Luzon, esemplifica la loro condizione. In 4-5 mesi su 1,2 ettari di terreno preso in affitto ha speso 60 mila pesos per semi, fertilizzanti, pesticidi, lavori, noleggio delle macchine, ecc. Ha venduto tutto il prodotto per 48 mila pesos, quindi con una perdita di 12 mila pesos.

Come può mantenere la famiglia?

Queste situazioni sono peggiorate da quando il governo ha modificato la legge sul prezzo del riso, abolendo il dazio sulle importazioni, le esportazioni e le imposte sul suo commercio. Il decreto inizialmente andava a beneficio dei consumatori, ma non dei coltivatori. A partire dall’ottobre 2019 il prezzo base all’azienda del riso palay è sceso a soli 7 pesos al chilo. Affrontare la penuria di riso in questo modo non ha fatto che peggiorare la situazione dei piccoli contadini.

In questa situazione i risicoltori proprietari della terra hanno deciso di venderla per lottizzazioni, dove costruiranno fabbriche, abitazioni, ecc. Di fronte alle difficoltà di fare il contadino i figli dei magsasaka cercano un altro lavoro. Secondo l’ultimo annuario dell’Ufficio di statistica delle Filippine, dell’agosto 2013, l’età media dei coltivatori di riso a livello nazionale è di 55 anni: potrebbe arrivare il giorno in cui non ci sarà più nessuno a continuare la tradizione della risicoltura filippina.

Dietro a tutto questo c’è un insieme di cause che riguardano i costi, le tecniche agricole, le intermediazioni parassitarie.

Una è quella dei grandi impianti per l’irrigazione.

Quanti di questi progetti nazionali sono stati portati a termine? E sono sufficienti ed economicamente sostenibili per i piccoli agricoltori? Altra questione è se per i contadini è sopportabile il costo per l’affitto delle risaie.

Hanno margini i contadini per dividere i loro profitti con i proprietari terrieri? Poi i noli dei macchinari, che i contadini affittano dai proprietari privati e che sono la componente più costosa delle lavorazioni.

Altro onere per i contadini è la trafila che attraversano i sacchi di riso per raggiungere il mercato e i consumatori, numerosi passaggi, dalla macinazione, al distributore, al grossista e al dettagliante in cascata.

Dell’intero ciclo della produzione del riso la maggior parte dell’investimento in denaro e in lavoro proviene dai contadini, eppure essi ottengono una minima parte del prezzo di mercato.

Un movimento operaio nelle Filippine, delle industrie e delle grandi aziende agrarie, potrebbe trovare, nella sua lotta per il comunismo, un valido appoggio nel ceto dei contadini in via di proletarizzazione.

 

 

 

 

 

 


PAGINA 7


Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Prima di Marx


11. Filippo Buonarroti


Capitolo esposto alla riunione generale a Torino nel maggio 2017

(Continua dal numero scorso)


La diaspora rivoluzionaria

Nel 1824 Buonarroti si stabilisce in Belgio, a Bruxelles, tra le altre cose mettendo fine ad una trentennale convivenza con la sua compagna ed iniziandone un’altra. Bruxelles è forse il centro principale della diaspora rivoluzionaria, anche per la sua vicinanza alla Francia; pochissimi fuoriusciti vanno in Inghilterra, che era stata il più grande nemico della Francia rivoluzionaria e non riscuote quindi nessuna simpatia tra i giacobini come tra gli egualitari. Buonarroti rientra quindi in contatto con molti ex convenzionali, con cui ha spesso accese discussioni: molti di questi sono stati responsabili del 9 Termidoro, della fine di Robespierre. La maggior parte di questi fuoriusciti non condivide affatto le idee egualitarie del grande rivoluzionario ormai sessantatreenne, ma il grande rispetto che si è guadagnato presso tutti loro per l’attività rivoluzionaria di tutta una vita certamente lo aiuta, facendogli avere un’influenza sugli uomini e sugli eventi maggiore di quella delle sue idee.

Barère, anche egli a Bruxelles, scriverà molti anni dopo di Buonarroti: «La viva immaginazione e il profondo pensiero gli avevano rivelato, in tutta la loro estensione, le miserie del popolo, l’asservimento delle nazioni e i vizi dei governi assoluti. Egli fu sin d’allora, per un sentimento di umanità e per convinzione, un politico radicale nel pieno senso della parola, ma disinteressato, generoso, e senza ambizione di popolarità o di buoni posti. Lo vidi molto spesso a casa di Vadier a Bruxelles; era tutt’altro che un uomo fortunato, ma sopportava la sua posizione prossima all’indigenza, con una ben rara forza di carattere. Si decise a dare lezioni di musica e di letteratura italiana: visse così del suo lavoro quotidiano, impiegando tutti i momenti di riposo a scrivere la storia imparziale dei princìpi e dei progetti di Babeuf e della sua società democratica. La sua dedizione alla causa dei proletari aveva qualcosa delle dedizioni dell’antichità».

Il nostro viene accolto con entusiasmo da alcuni giovani liberali: De Potter, Delhasse, Temmerman, Collignon. Ciò gli permette di operare in Belgio e di aprire, nella libreria dell’amico Fontana ad Anversa, una centrale settaria. In Belgio arrivano su posizioni babuviste due francesi che diventano poi suoi principali collaboratori, il democratico Charles Teste e il marchese Voyer d’Argenson, allora carbonaro. Tramite i due Buonarroti riesce ad influenzare l’opposizione liberale francese e la Carboneria, nella quale combatte l’influenza di Lafayette.

In questi anni il nostro mostra simpatia per le dottrine di Owen pur criticandole aspramente: non crede infatti che la sola forza della predicazione e dell’esempio sia sufficiente per edificare il comunismo, cosa che richiede sì un certo gradualismo, ma che non è possibile senza la presa del potere politico. Più dura è la critica verso Saint-Simon, che parla di abolizione dell’eredità e non della proprietà. A favore di quest’ultimo, che non è certo un rivoluzionario, possiamo portare solo un argomento, cioè la maggior comprensione dell’importanza della rivoluzione industriale.

L’evento più importante del soggiorno belga è sicuramente la pubblicazione nel 1828, grazie all’aiuto finanziario del De Potter, della “Conspiration pour l’Egalité dite de Babeuf”. Scrive il Saitta: «Solo grazie alla pubblicazione del 1828 Buonarroti riuscì a diventare veramente la personalità cerniera che legava due età e due mondi diversi: conservare intatto il ricordo di un prezioso passato e parlare alle nuove generazioni, non più entro il ristretto ambito delle relazioni personali o del vincolo latomico, ma in pubblico e presso ceti e persone, ove la sua azione diretta non è mai arrivata. Funzione preziosa e insostituibile, ora che il momento dell’azione ritornava».

Sappiamo che Buonarroti considera gli inglesi degli schiavi, oppressi da una aristocrazia corrotta e tirannica. Neanche gli Stati Uniti d’America, allora visti da molti come un modello di democrazia, godono della sua simpatia: il federalismo americano gli sembra avere aspetti reazionari ed aristocratici. Gigault, vicino a lui ed al Teste, definisce gli Stati Uniti “corporazione di mercanti e di proprietari”, e “aristocrazia pecuniaria”. Il giornale belga “Radical” dei fratelli Delhasse, devoti al Buonarroti, nel 1837 definisce la democrazia americana “regime feudale rivestito di forme democratiche”. Insieme a tutto ciò, c’era in Buonarroti, come scrive lo storico Alessandro Galante Garrone: «la simpatia per le classi lavoratrici inglesi oppresse da un’aristocrazia rapace ed egoista, e la grande speranza di un loro risveglio, anzi di una loro aperta rivolta (...) Questa attesa di una crisi rivoluzionaria dell’Inghilterra e di una vittoria del proletariato britannico non sarà soltanto sua, ma di molti suoi compagni di fede e di esilio».

Tornando ai seguaci di Saint-Simon, intorno al 1830 Buonarroti li considera dei possibili alleati in una prima fase, ma le differenze erano troppo grandi per permettere qualsiasi collaborazione. Il sansimoniano Hippolyte Carnot scriverà poi: «Il vecchio Buonarroti (...) ha assistito a qualcuna delle nostre conferenze: vi fu accolto con i riguardi dovuti alla fermezza del carattere e alla perseveranza delle convinzioni; ma non tardò ad allontanarsi. Il socialismo del 1830 rassomigliava troppo poco alla repubblica degli Eguali».

Sicuramente Buonarroti non condivide la teoria del progresso sansimoniana, analoga a quella che sarà poi dei positivisti, e dice, giustamente, che il proletariato moderno per alcuni aspetti sta peggio dello schiavo antico, in quanto l’attuale proprietario, a differenza dell’antico, non ha interesse a mantenere in vita il lavoratore. Un altro testo importante, edito a Parigi nel 1829, poi conosciuto anche da Marx, sono le memorie del convenzionale Levasseur, con prefazione di Achille Roche: una sorta di storia della rivoluzione che rivaluta decisamente Robespierre. Roche, tramite Teste, si avvicina alle idee di Buonarroti di cui diviene un fidato collaboratore. Questa introduzione di Roche è del resto chiara. Eccone poche righe: «Fin dal 1789 un piccolo numero di uomini ardenti ed energici osò sognare l’eguaglianza assoluta, che sarebbe diventata quattro anni più tardi generosa chimera del popolo francese. Il loro partito, appoggiato soltanto da poche voci isolate, ingrossò rapidamente. Nel 1792 esso riuniva i voti dell’immensa maggioranza dei cittadini. Ma già si levavano diverse fazioni a sbarrargli il passo».

In Belgio l’influenza di Buonarroti, pur reale, è molto limitata. La massoneria belga è su posizioni liberali e talvolta orangiste, e solo negli ultimi anni della restaurazione si avvicina a posizioni democratiche, ma pur sempre lontane da quelle buonarrotiane. È certamente maggiore l’influenza esercitata sugli esuli politici, soprattutto francesi e italiani; ai nomi già fatti va aggiunto il bresciano Francinetti.


Per una doppia rivoluzione

I contatti con democratici non egualitari e repubblicani, che in genere costituiscono il secondo grado delle sue organizzazioni settarie, si danno lo scopo di distruggere l’Europa della Restaurazione nata dal congresso di Vienna. Ci sono dei passi indietro rispetto alla cospirazione del 1796, dei quali non possiamo dare la colpa a Buonarroti che non rinnega mai i suoi princìpi, ma che sono dovuti alle difficoltà prodotte dalla contro-rivoluzione, la prima parte della quale è un tunnel di circa 35 anni. Il Buonarroti delle sette pensa ad una sorta di doppia o plurima rivoluzione che coinvolga settori di piccola e media borghesia, anche se in posizione rigidamente subordinata, in funzione antireazionaria. Anche nel 1796 si parlava di una sorta di doppia rivoluzione che, oltre ai proletari, doveva coinvolgere però soltanto artigiani, piccoli proprietari e piccoli contadini. Il punto da cui sono ripartiti Buonarroti e gli altri dopo la sconfitta della rivoluzione, poi anche del suo affossatore ma anche esecutore testamentario Napoleone, era molto più basso rispetto al 1796.


A Parigi

Con le “trois glorieuses”, le tre giornate insurrezionali del 27‑29 luglio 1830, sulle barricate parigine troviamo, accanto ai plebei epigoni degli antichi sanculotti, un proletariato numeroso, ben diversamente da quello di 30 o 40 anni prima, che era difficilmente distinguibile dai sanculotti. La borghesia liberale, sfruttando la paura che suscita il proletariato armato, riesce a sostituire il reazionario re Carlo X con suo cugino Luigi Filippo d’Orleans. La monarchia costituzionale desiderata dalla borghesia ha ora una nuova costituzione approvata dal parlamento e non più gentilmente concessa dal re, anche se poi nella sostanza è la stessa carta del 1814 con qualche leggera modifica.

Il 20 agosto Filippo Buonarroti torna a Parigi, affiancando un’azione legale e propagandistica, ora possibile, ai metodi settari e cospirativi. L’azione legale mirava ad un programma minimo, consistente innanzitutto nella richiesta del suffragio universale e dell’imposta progressiva con l’eliminazione delle imposte indirette. A Parigi nasce la “Società degli Amici del Popolo” dove, accanto a liberali e repubblicani borghesi, sono presenti Filippo Buonarroti ed i suoi collaboratori, a partire dai fidati Teste e Voyer D’Argenson.

Dopo una tentata insurrezione nel 1831 degli operai tessili di Lione, dovuta al mancato rispetto padronale di una tariffa salariale concordata, nel 1832 ha fine la “Società degli Amici del Popolo”, a seguito di un processo ai suoi principali esponenti. Dalle sue ceneri nasce la “Società dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, al cui interno c’è un comitato guidato da Lebon su posizioni buonarrotiane, contrapposto ai repubblicani borghesi di Raspail. Il gruppo di Lebon arriva fino a creare una rivale “Società dei Diritti del Popolo”, di cui sappiamo molto poco: alla fine la rottura è evitata con una soluzione di compromesso.

Nel 1833 appare lo scritto “Boutade d’un riche” di Voyer d’Argenson, dove si dice che tutta la ricchezza viene dal lavoro, e si invita il popolo a sollevarsi non «per reclamare un misero aumento di salario», ma per impadronirsi del potere. Nello stesso anno appare uno scritto di Charles Teste, “Progetto di Costituzione Repubblicana”, dove si ripropongono i temi buonarrotiani della dittatura rivoluzionaria. Con la repressione del 1832, e il conseguente restringersi delle possibilità di azione legale, Buonarroti intensifica l’azione settaria, affiancando alla sua organizzazione chiamata Mondo, la sua Carboneria riformata, e poi la Carboneria Democratica Universale, nei cui formulari si legge: «poiché l’ineguaglianza estende i suoi flagelli su tutta l’Europa, questa ha ovunque bisogno di una riforma sociale».

Il ministro degli esteri francese Sebastiani pronuncia in Parlamento nel 1831 la celebre frase “l’ordine regna a Varsavia” a seguito della sconfitta dei tentativi di insurrezione polacchi. In effetti con la sconfitta di questi tentativi in Francia poi in altre parti d’Europa, l’ordine della restaurazione regna in tutto il continente. In questo ordine la borghesia accetta una posizione talvolta paritaria e talvolta subordinata alle monarchie e ai vecchi ceti nobiliari, a cui si affida controvoglia, spaventata da quello spettro del comunismo che comincia ad aggirarsi per l’Europa.

La “Società dei Diritti dell’Uomo” termina con le leggi repressive del 1835, conseguenti all’insurrezione operaia del 1834 a Lione poi a Parigi. Buonarroti, intervenendo alla sezione della “Società dei Diritti dell’Uomo” di Lione, cerca di evitare la rivolta in quanto intempestiva e votata alla sconfitta; ciò non gli impedisce, a sconfitta avvenuta, di difenderne i protagonisti e di rivendicarne l’azione. Comportamento analogo avrà Carlo Marx riguardo alla Comune di Parigi del 1871. In questi anni capita spesso a Buonarroti di essere accusato di attendismo, per la prudenza e la contrarietà ad azioni insurrezionali spesso avventate e male organizzate. Anche allora, come in tempi più recenti, la maggior parte degli apostoli del fare e dell’azione rivoluzionaria, sono poi finiti gradualmente nel campo nemico, dopo aver portato in carcere o alla morte gli elementi migliori.

Il prefetto della Senna, nel 1830, scrive: «Gli operai hanno per un momento dimenticato i principi per i quali hanno combattuto e che parecchi di loro avevano sigillato col sangue: hanno perduto di vista che la libertà del lavoro non è meno sacra di tutte le altre libertà». In uno scritto del gruppo buonarrotiano di Lebon, firmato “Efrahem, ouvrier cordonnier”, leggiamo: «Nel giorno, nell’ora e al segnale che esse indicheranno [ci si riferisce qui alle associazioni operaie, NdR] tutti gli operai abbandoneranno le loro fabbriche e sciopereranno per ottenere dai padroni l’aumento reclamato». Si parla inoltre di far tacere le ridicole gelosie e le pericolose rivalità tra le associazioni operaie dei vari settori e di creare un comitato centrale di delegati in rappresentanza delle associazioni particolari. In un articolo sull’”Echo de la Fabrique” dell’8 dicembre 1833 leggiamo: «Dire loro che sono liberi di discutere il prezzo del loro lavoro è una insultante derisione per chi non ignora che, posti fra i bisogni dell’oggi e quelli del domani, essi sono costretti a subire la legge del più forte, la legge del capitale». Il repubblicano André, un avvocato di Marsiglia, scrive: «Proletari, operai, voi tutti che siete poveri e sofferenti sulla terra, unitevi dunque per evitare la sorte spaventosa che vi minaccia».

Secondo un rapporto di polizia del 1834, Voyer d’Argenson si sarebbe recato al comitato della società che si occupava degli operai per sostenere la necessità delle “coalitions” e della formazione di un comitato centrale in rappresentanza di tutte le classi operaie. Buonarroti comprese quindi l’importanza delle associazioni operaie che si formavano spontaneamente, cercando l’unione più stretta possibile con queste. All’influenza diretta di Buonarroti è dovuta probabilmente la formazione delle “Legioni Rivoluzionarie” e della “Società delle Famiglie” nel 1835. Nel 1836 nasce la “Società delle Stagioni”, ad opera dei suoi eredi diretti Blanqui, Barbés e l’operaio Bernard. In questi ultimi anni le difficoltà economiche del vecchio rivoluzionario sono alleviate dall’aiuto dell’amico e comunista marchese Voyer d’Argenson. Buonarroti muore il 17 settembre 1837, all’età di 76 anni.


Con Giuseppe Mazzini

È interessante il rapporto tra Buonarroti e il repubblicano italiano Giuseppe Mazzini per la chiarezza da cui risaltano le rispettive posizioni. All’inizio del 1831 è fondata a Parigi la “Giunta Liberatrice Italiana” con un esecutivo di tre membri: Buonarroti, Pietro Mirri (suo fedele collaboratore) e il moderato Salfi. Della Giunta faceva parte anche un altro suo fidato collaboratore, il conte Carlo Bianco di Saint-Jorioz, autore della “Guerra per bande applicata all’Italia” e capo della setta degli Apofasimeni. Dopo il fallimento dei moti del 1831, e in particolare della ambigua e sgangherata spedizione in Savoia, Buonarroti si dimette dal direttorio esecutivo con la conseguente fine della Giunta Liberatrice.

Nello stesso anno fonda la setta dei “Veri Italiani”, assai diffusa in Toscana e in particolare a Livorno, mentre Mazzini fonda la “Giovine Italia”. Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel 1805 da famiglia di tradizioni gianseniste, già membro della Carboneria e della setta degli Apofasimeni, dopo una iniziale per quanto generica influenza buonarrotiana, ne subisce una più evidente sansimoniana. Nel 1832 è stretto un accordo tra le due organizzazioni consistente in una “comunione di consigli e di mezzi di propagazione” in vista di un prossimo “moto universale italiano”, mantenendo entrambe una totale indipendenza riguardo “alle forme e al modo dei lavori”. Riconosciamo con difficoltà il Mazzini del 1831, che parlando della Francia si pronuncia contro «l’aristocrazia bourgeoise, finanziaria, proprietaria», e quanto all’Italia del «trionfo d’una classe sovra un’altra, d’un’aristocrazia nuova sopra una vecchia». Dice ancora: «le masse sentirono confusamente che si trattava della classe media, non dell’ultima, e anzi che la rivoluzione era fatta col terrore di risvegliarla».

In questi primi scritti, dove fa anche l’elogio della Montagna e di Robespierre, Mazzini intende per “popolo” la massa dei lavoratori, tutto ciò che non è borghesia né aristocrazia. Questo apparente sentimento classista è dovuto all’ambiente buonarrotiano in cui ha mosso i primi passi, e in particolare a Carlo Bianco di Saint-Jorioz, nella cui setta inizialmente militava. Già pochi mesi dopo, nel 1832, le parole del genovese cambiano rapidamente. Scrive lo storico Alessandro Galante Garrone: «Il principio sansimoniano dell’associazione universale sottentrerà a quello buonarrotiano della lotta di classe».

In una circolare della Carboneria riformata buonarrotiana di fine 1832 leggiamo: «E’ evidente per i migliori patrioti polacchi che i Russi trionfarono perché la Dieta e il Governo, composti di nobili e di borghesi i quali ebbero solo amore di se stessi, non volendo far leggi né creare istituti a utile popolare, temevano armare i contadini e incoraggiarli per sottrarsi all’oppressione sotto cui gemevano». È questa probabilmente, negli anni in questione, l’unica interpretazione classista della sconfitta dell’insurrezione polacca.

Carlo Rusconi, ministro degli esteri della Repubblica Romana del 1849, scrive nelle sue memorie di un colloquio del 1831 con Buonarroti, dove questo dice di Mazzini: «È una buona natura, un giovane di sensi egregi che ha inanzi a sé un grande avvenire; io l’amo come un figliuolo, sebbene tema i suoi istinti religiosi. Bisogna che tutto si fondi sulla ragione, non sopra idee trascendenti, e la ragione qui basta. Qui son di fronte due partiti, uno che ha tutto e vuol tutto, l’altro che non ha nulla e deve aver tutto».

Mazzini nel 1833 scrive all’amico Luigi Melegari: «Certo: la mia repubblica non istà nell’innalzare una classe – e sia qualunque – struggendone un’altra. La mia Repubblica basa sul Popolo – per Popolo intendo l’aggregato di tutte le classi (...) Non vogliamo sovversioni di diritti legittimamente acquistati, non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà individuali, non usurpazioni di proprietà (...) La Giunta centrale dei Veri Italiani è francese, in fondo. I Veri Italiani sono un laccio teso agl’Italiani, perché perdano il frutto di tutti i lavori, e soggiacciano bellamente alla direzione straniera, al giogo francese».

Già a questo punto vediamo che per Mazzini la lotta di classe costituiva una pericolosa divisione all’interno del popolo italiano, ed era considerata un ostacolo al raggiungimento dell’indipendenza e della repubblica, e quindi della “missione“ dell’Italia. Inoltre per lui i metodi “terroristici”, se erano stati necessari in Francia, non lo erano in Italia, in quanto: «tra noi, i nemici delle libere istituzioni son pochi; e quei pochi tremanti; e se l’armi austriache non li proteggono, nulli (...) Tra noi il patriziato, servo com’è il popolo, ha rinnegato oggimai ogni spirito di casta, e si è affratellato». Scrive inoltre Mazzini in una lettera a Melegari: «I buonarrotisti sono in genere nemici nostri, perché i più birbanti, e ipocriti di libertà, e pochi, e degli utopisti, cervelli stretti».

Mazzini parla di sistema teocratico della centrale buonarrotiana e di “papato repubblicano”.

Buonarroti, in una lettera a La Cecilia, scrive: «Ma che volete? È un effetto dei miei capelli canuti il non aver più nessuna fede nelle chiacchiere, nelle millanterie, nell’impeto sconsiderato, e nella sconsigliata passione di figurare, d’ottenere applausi, e d’abbagliare: vorrei pensieri sodi, animosi, ponderati, e volti non allo sfolgorar d’un momento, ma intenti sempre al vero bene dell’umanità anche futura; in quanto agli Italiani esuli e di buona indole bramerei trovare in loro meno burbanza e costante volontà d’acquistare veri lumi e di diffondere fra i loro concittadini, come il massimo e forse unico uffizio che sia in loro potere, quella sana e semplice filosofia che ad altro non mira se non all’uguaglianza effettiva».

Con il fallimento della spedizione mazziniana in Savoia del 1834, sconsigliata fortemente da tutte le organizzazioni buonarrotiane, si arriva alla rottura definitiva tra i “Veri Italiani” e la “Giovine Italia”, e quindi tra i due protagonisti. Scrive lo storico Alessandro Galante Garrone: «Il Buonarroti vedeva pur sempre il risorgimento italiano sullo sfondo di una più vasta rivoluzione sociale europea, che avesse a suo centro focale la Francia e per suo ultimo scopo l’attuazione degli ideali babuvistici; era da ciò indotto a dare la preminenza al problema dell’eguaglianza su quelli specifici della libertà costituzionale e della indipendenza dallo straniero. Per lui, la lotta sarebbe stata anche e prima di tutto lotta contro le classi privilegiate. Di qui la necessità di scegliere bene i compagni di lotta, di prestabilire i fini e le istituzioni da raggiungere, di affidare a una dittatura rivoluzionaria il compito di gettare arditamente le basi della nuova società egualitaria».


Influenza sugli inglesi

Abbiamo detto dell’attività buonarrotiana in Francia, Italia, Belgio ed altri paesi. Per quanto riguarda la Germania sembra quasi certo che egli sia stato in contatto con Theodor Schuster, il rivoluzionario della Lega dei Proscritti. Importante è anche l’influenza su alcuni settori del cartismo inglese. Il cartista James Bronterre O’ Brien, irlandese, redattore politico di vari giornali inglesi, nel 1836 traduce in inglese la “Cospirazione” del Buonarroti, scrivendo nella introduzione: «Io fui così fortemente colpito dalla coincidenza delle idee del Buonarroti con le mie proprie, che immediatamente decisi di tradurre il libro, e di presentare così ai lettori inglesi le dottrine del “Poor Man’s Guardian” sotto una nuova forma».

Già nel 1833 alcuni bollettini dei “Veri Italiani” testimoniano contatti con associazioni inglesi affini. I due hanno in comune la concezione che è necessario impadronirsi del potere per realizzare le riforme desiderate, e la critica nei confronti di Owen, che pure apprezzano per molti aspetti. O’Brien scrive il 1° settembre 1832 sul “Poor Man’s Guardian”: «Confessiamo di avere in sospetto i diversi piani dei cooperatori che sono decisamente avversi a dare alle classi operaie i loro diritti politici e che, in verità, colgono tutte le occasioni per parlare con ironia della conquista del suffragio universale come di un non‑valore. Noi al contrario sosteniamo che, fino a quando le classi operaie non avranno un potere politico, cioè non avranno ottenuto il diritto di eleggere dei deputati al Parlamento, nessun miglioramento durevole sarà possibile nella loro condizione».

In O’Brien di questi anni abbiamo quindi molti punti in comune con Buonarroti, come scrive il Garrone: «I violenti attacchi alla borghesia industriale e commerciante, al capitalismo che si giova delle autorità politiche e religiose come di suoi strumenti, il sarcasmo sull’ingenuità degli oweniani che s’illudono di risolvere i loro problemi facendo appello alla bontà dei ricchi e degli aristocratici».

La situazione inglese era sicuramente molto diversa da quella francese, ma c’erano anche delle affinità. Ancora il Galante Garrone: «Ad esempio, la polemica delle classi padronali inglesi contro il trade-unionism e le combinations in nome di una astratta, individualistica libertà dei contratti, ripeteva a puntino i temi della stampa borghese in Francia. Tutta l’entusiastica campagna del “Poor Man’s Guardian” e del “Destructive” in favore del movimento associativo degli operai, duramente contrastato dai ceti dirigenti, sembrava ricalcata sulla pubblicistica francese in favore delle associations. Le polemiche di O’Brien contro l’ingenuità dei cooperanti oweniani, che disdegnavano la conquista del potere politico e si appellavano alla generosità dei padroni, coincidevano esattamente con le polemiche dei repubblicani lionesi contro le ubbie di certi sansimoniani o il fiducioso ottimismo dei mutuellistes. La obiettiva affinità delle condizioni ambientali favoriva l’affinità delle posizioni ideologiche». Queste affinità nelle condizioni ambientali erano comunque limitate, ed è anche per questo che tali posizioni in Inghilterra rimasero fortemente minoritarie.

Dopo la pubblicazione della traduzione in inglese della “Cospirazione”, Buonarroti scrisse a O’Brien: «Vedo con vera gioia che anche l’Inghilterra ha nel suo seno degli amici sinceri di quella pura eguaglianza per cui ho avuto la fortuna di poter unire i miei deboli sforzi a quelli ben più gloriosi dei miei amici che li sigillarono col sangue (...) Gli uomini della tempra che voi sembrate possedere sono rarissimi coi tempi che corrono, e io mi rallegro di avere appreso in modo certo che in Inghilterra tutto non è avidità di ricchezze e spirito di bottega, e che accanto ai vostri signori e ai vostri preti di Pluto, ci sono pensatori profondi, amici devoti del popolo e ammirevoli spregiatori delle follie umane».


Fine della borghesia rivoluzionaria

Sulle vicende che vanno dal Termidoro al 1830, è illuminante leggere cosa scrive Marx ne “La sacra famiglia”:

«Solo dopo la caduta di Robespierre, l’illuminismo politico, che aveva voluto sorpassare sé stesso, che aveva vissuto una fase di esaltazione, comincia a realizzarsi prosaicamente. Sotto il governo del Direttorio la società civile esplode in potenti correnti vitali (...) La borghesia inizia quindi il suo governo (...)

«Ciò che, il 18 Brumaio, è diventato la preda di Napoleone non è stato il movimento rivoluzionario in generale, è stata la borghesia liberale (...) Napoleone è stato l’ultima lotta del terrorismo rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla rivoluzione, e contro la sua politica (...)

«Come, con Napoleone, il terrorismo rivoluzionario si è contrapposto ancora una volta alla borghesia liberale, così, con la Restaurazione, con i Borboni, le si è contrapposta ancora una volta la controrivoluzione. Infine, nel 1830, questa borghesia ha realizzato i suoi desideri del 1789, con la distinzione, tuttavia, che ora il suo illuminismo politico era finito; che essa, con lo Stato costituzionale rappresentativo, riteneva di raggiungere non più l’ideale dello Stato, non più la salvezza del mondo e fini generalmente umani, ma aveva invece riconosciuto questo Stato come l’espressione ufficiale del suo potere esclusivo, come il riconoscimento politico del suo interesse particolare. La storia della Rivoluzione francese, che è iniziata nel 1789, non è ancora terminata con l’anno 1830, anno in cui ha riportato la vittoria uno dei suoi momenti, arricchito della coscienza del suo significato sociale».

(continua)

 

 

 

 

 

 
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8 marzo 2020
Socialismo e femminismo
Da “L’Avanguardia” del 27 ottobre 1912

L’articolo che qui riproduciamo è del 1912. Si inserisce in piena continuità nella interpretazione marxista della oppressione delle donne nel mondo moderno, nella sua condanna e spiegazione sociale, e denuncia la netta opposizione del movimento delle donne socialiste rispetto al femminismo della borghesia, legalitario e democratico.

Vi si cita il periodico del Partito Socialista Italiano, che era allora il partito della classe operaia, Difesa delle Lavoratrici, che varrebbe certo la pena di ricercare in qualche biblioteca per riprodurlo, e studiarlo, come recentemente abbiamo fatto con il successivo Compagna, Organo del Partito Comunista d’Italia per la propaganda fra le donne.

Da allora in molti paesi la condizione giuridica delle donne si è avvicinata assai alla parità con i maschi, cosa che l’articolo già prevedeva: lo donne dell’alta borghesia sono diventate “come gli uomini”, spadroneggiano (la parola viene da “padre”) sui proletari come i maschi della loro classe. Parità acquisita nel campo del diritto di successione e di divorzio, e il “focolare domestico” entrambi i coniugi lo possono abbandonare (se se lo possono permettere).

Nello Stato anche donne ministri, presidenti e funzionari d’ogni livello si dimostrano per niente meno efficienti nel contrastare il proletariato dei “colleghi” maschi. Tuttavia la presenza delle donne “al potere” non ha prodotto alcuna vera legislazione sociale in difesa delle donne lavoratrici.

Perché fra il lavoro delle donne va considerata la maternità, primaria funzione vitale che il capitalismo non potrà mai emancipare dalla sottomissione ai meschini e angusti rapporti mercantili, al di sotto perfino dello stesso metodo salariale, non essendo retribuito, cioè riconosciuto socialmente. La libera maternità, compreso il suo contrario, il diritto di aborto, è misconosciuta quando non repressa, di fatto sempre, e talvolta anche per legge, e il cui onere ricade in tutto sulla donna anche nei paesi più democratici e moderni, ma fatalmente borghesi e capitalistici.


Socialismo e femminismo

Il movimento femminista che si va dovunque affermando merita l’attenzione e lo studio dei socialisti. Anche in Italia assistiamo ad un risveglio del movimento femminile, e nel campo proletario esso è diretto da quel gruppo di valorose compagne che pubblica la Difesa delle Lavoratrici, periodico a cui ogni vero socialista deve augurare il più grande sviluppo, alla cui diffusione dobbiamo tutti contribuire.

Diciamo subito che l’insieme di tendenze che si comprendono sotto il nome di femminismo, e culmina nell’aspirazione al suffragio universale, non è la stessa cosa del movimento tra le donne socialiste, che appena ora si inizia. Specialmente il principio di cercare partigiani per il voto alla donna in ogni partito politico, sostenuto dalle femministe borghesi, non può essere accettato dai socialisti, rappresentando esso un pericolo di collaborazione di classe, e non potendo quindi conciliarsi coi caratteri fondamentali del movimento socialista. E le nostre compagne della Difesa ci tengono a non passare per “femministe”, e con ragione.

Ma questo non vuol dire che occorra disinteressassi del femminismo, tutt’altro. Bisogna invece sostenere che l’eguaglianza dei sessi è una parte essenziale del programma socialista, che essa non potrà realizzarsi prima dell’abolizione della proprietà individuale, e che il femminismo borghese è su una strada falsa che non potrà condurlo a successi che escano dall’orbita di qualche passeggero trionfo mondano.

Rivelando così l’anima veramente rivoluzionaria del femminismo, noi indurremo i migliori elementi di questo movimento a venire a noi, e ad abbandonare quella parte poco seria, costituita da signore e signorine borghesi, più o meno intellettuali, che vorrebbero raggiungere il voto alle donne conquistando coi loro teneri sorrisi la metà più uno dei 508 onorevoli che lo possono concedere. Occorre quindi propagandare nell’ambiente femminile la tesi che la rivendicazione della donna non può avvenire in una società basata, come l’attuale, sulla proprietà privata. Così una buona parte di donne colte e intelligenti, appartenenti a quel ceto medio che, nel suo elemento maschile, diviene sempre più antisocialista, potranno essere conquistate alla propaganda rivoluzionaria ed essere di aiuto prezioso per l’organizzazione del proletariato femminile.

Occorre nello stesso tempo rendere popolare tra i socialisti la questione femminile, inducendo i compagni e gli organizzati a svolgere in seno alle famiglie un’attiva propaganda, per distruggere nel proletariato socialista il pregiudizio borghese e conservatore dell’inferiorità femminile.

Dimostrare che la borghesia capitalistica sarà sempre contraria al femminismo non è difficile compito. La classe che ha il monopolio dei mezzi di produzione lo conserva e lo trasmette per mezzo delle successioni e delle eredità in linea maschile, e quindi garantisce la continuazione del suo monopolio a mezzo di una serie di disposizioni giuridiche che rappresentano una vera tirannia di sesso. Nelle classi possidenti la famiglia ha oramai il solo valore di mezzo di trasmissione della proprietà individuale; è la ditta che soffoca il focolare domestico di romantica memoria, e la classe capitalista (che sa a tempo sospendere le lotte interne di concorrenza, quando si tratta di lottare contro un pericolo comune) vede di malocchio le aziende rarissime affidate alle donne, e le combatte con disposizioni legali.

Quindi la borghesia non accetterà mai la collaborazione della donna nella formulazione della legge. È vero che qualche nazione ha già concesso il voto alla donna, ma sono casi limitati di eccezione. D’altra parte le donne vogliono il voto non come fine estremo della loro agitazione, ma come mezzo di avere tutta una legislazione sociale in difesa della donna.

Ebbene, anche la democrazia più avanzata esita a lanciarsi in questo campo. Cambiare l’ordinamento giuridico della famiglia è pericoloso per tutto l’edificio della società capitalistica, e la democrazia, [che] non è che un atteggiamento storico di conservatori che si dicono evoluzionisti per allontanare la rivoluzione, esita e promette poco per mantenere nulla. Arriva al divorzio o poco più in là. E il divorzio non attenua che di poco l’inferiorità giuridica e morale della donna.

L’emancipazione del sesso femminile non è una riforma raggiungibile nell’ambito delle presenti istituzioni, ma una conquista essenzialmente rivoluzionaria. Solamente un partito veramente sovversivo, come il partito socialista, può scriverla nella sua bandiera.

La tirannia maschile si basa sul fatto che il maschio non è responsabile del frutto dei rapporti sessuali, non è obbligato a mantenere la prole. Per questo la donna che si concede domanda una garanzia legale della maternità (matrimonio), o anche una quota (direi quasi) di assicurazione contro il rischio di essere madre, e abbiamo la prostituzione. La fisionomia fondamentale dei due fatti è la stessa, al di fuori di ogni pregiudizio morale, e si risolve in una conclusione assai semplice: nella società attuale, l’amore si riduce essenzialmente ad un rapporto economico di compra-vendita.

Marx dimostrò che il lavoro è soggetto come qualunque altra merce alle leggi dell’offerta e della domanda. Si potrebbe svolgere una teoria analoga sulla merce-amore.

E anche in questo campo si può dimostrare l’esistenza di un plusvalore, che rappresenta lo sfruttamento del maschio sulla femmina, analogo a quello del capitale sui salariati.

Una analisi dettagliata dimostrerebbe che nessuna forma di rapporto sessuale può sfuggire a queste leggi. Ci si può chiamare volgari, ma questo non sposta la nostra obiettività.

Il socialismo ha disturbato già la “poesia” di chi voleva godere senza che raggiungesse le sue narici delicate il puzzo che sale dal letamaio degli sfruttati. E noi potremo dire a quei giovani sentimentali e intellettuali che ci accuseranno di “cinismo” che essi indirizzano la parte migliore della loro attività appunto a questo nobile scopo: amare senza pagare.

La causa quindi dell’inferiorità femminile va cercata nella costituzione economica della società.

Se una legge veramente potesse aversi sulla ricerca della paternità, essa dovrebbe stabilire, in linea astratta, questo principio di diritto: gli averi di ogni uomo si ripartiscono in misura eguale a tutte le donne con cui ebbe rapporto per il mantenimento della prole. Una tale legge segnerebbe la fine del capitalismo. È assurdo che la borghesia la voti. Ma è possibile che una democrazia avveduta la adombri nei suoi programmi – insieme ad altre che lo spazio ci vieta di analizzare – per deviare il movimento femminile dalla corrente rivoluzionaria.

Ebbene, noi diciamo a tutte le donne che soffrono, tradite e ingannate dalla prepotenza maschile, che esse non debbono lasciarsi trarre sulla falsa strada. Come ai proletari che aspettano il loro riscatto dalle riformette democratiche, noi diciamo alle nostre compagne: Alzate gli occhi, la luce della redenzione è là, nella grande conquista rivoluzionaria e non altrove.

Guardiamoci dalla democrazia femminile che sarà non meno dannosa del clericalismo femminile.

Già in questo campo la massoneria lavora, con intensità non sospettata, e fa portare “in voce di soprano” i suoi dischi fonografici: civiltà, progresso, libero pensiero... È un allarme che deve correre tra le file socialiste perché la triste manovra non possa riuscire.

E perché non riesca, bisogna che noi lavoriamo molto più di coloro, alla vera, alla buona, alla santa propaganda fra le donne.